Mi è bastato un giorno e mezzo per finire “Mamme a partita Iva. Come vivere allegramente la maternità quando tutto è contro” (edizioni Sonzogno), scritto dalla giovane antropologa e docente di lingue Valentina Simeoni. Se dal titolo il volume può apparirvi simile alle centinaia di libri sulla maternità vi sbagliate. Infatti, a differenza che negli Stati Uniti, dove sul tema della conciliazione tra lavoro e famiglia è stato scritto moltissimo (l’autrice cita alcuni titoli), in Italia i libri sulla maternità tendono ad essere quasi sempre saggi su come prepararsi al parto, sull’allattamento, lo svezzamento e la crescita, al massimo sull’organizzazione, ma raramente, e specificamente, sulla conciliazione. Invece questo libro si concentra esattamente su questo aspetto, e lo fa analizzando il tema del mettere insieme famiglia e lavoro sia sul piano concreto, sia su quello psicologico ed emotivo, sia infine su quello sociale e direi politico. Di più. Il libro si focalizza esclusivamente sulle madri a partita Iva, quelle di cui non parla nessuno, quelle che davvero la conciliazione devono inventarsela tra mille difficoltà perché non hanno un “caldo” posto fisso pronto al loro ritorno (e con ciò non voglio dire che avere un figlio da dipendente sia facile, ma che da lavoratrice autonoma lo è molto, ma molto di più).
Il primo problema nasce nel momento in cui si resta incinte. Perché paradossalmente una libera professionista, guardando lo stick che segnala il lieto evento, ha appena il tempo di essere felice, perché il suo pensiero va immediatamente a come farà a consegnare i lavori chiesti da committenti e clienti in tempo per la gravidanza. Comincia dunque non tanto un periodo di riposo e immaginazione, ma mesi di lavoro, anche molto duro. Valentina racconta di come abbia cercato di lavorare fino alla fine, guidando per ora con il pancione molto avanzato per non mollare i corsi che le erano state assegnati. Tante le lavoratrici autonome che non staccano neanche pochi giorni, tante anche – sembra incredibile ma succede, eccome – quelle che non dicono neanche di essere incinte e inventano un viaggio o un piccolo incidente, tanto lavorano da casa e i committenti non le vedono mai di persona.
Il secondo scoglio è burocratico: ottenere dall’Inps – o dalla cassa del proprio ordine – il contributo maternità che spetta alle lavoratrici. In base, udite udite, al reddito dell’anno o degli anni precedenti. Se per esempio nei mesi prima si è lavorato tantissimo ma nell’anno precedente pochissimo, non si avrà quasi nulla. Valentina racconta la sua battaglia allo sportello per riuscire ad avere quello che lei considerava un diritto inalienabile, anche se di poche centinaia di euro, denaro che tra l’altro spesso arriva dopo che il bambino è nato e cresciuto di parecchio.
Ma il conflitto più grande arriva con la nascita. La fase dell’allattamento al seno, delicatissima, quella dove si avrebbe diritto a un riposo assoluto, per favorire appunto l’attaccamento del bambino e il riposo della madre, diventa un campo di battaglia. Un miraggio spesso per le madri lavoratrici autonome, che ritornano a lavorare quasi subito, e spesso fanno salti mortali tirandosi il latte per continuare comunque a dare, quando possibile, il proprio. Dei novi mesi di maternage che per l’autrice rappresenterebbero un periodo necessario di contatto h24 tra madre e figlio neanche se ne parla. Chi non è dipendente non può rischiare di perdere contratti e clienti. Le “soluzioni” sono molteplici. C’è chi lavora quando il bambino dorme oppure di notte, c’è chi si affida ai nonni, c’è chi punta sul nido, anche se spesso il costo della retta equivale a quanto si guadagna e il nido non ha quella flessibilità che i lavori autonomi impongono. Quasi tutte continuano a lavorare – queste madri amano il proprio lavoro, anche se la società la considera di serie b e spesso gli stessi parenti continuano a pensare che in fondo non sia neanche un lavoro, visto che non c’è un ufficio – ma il cammino è costellato di rimpianti, nostalgia, sofferenza, conflitto. Anche se il libro ha anche l’obiettivo di presentare il lavoro autonomo anche come qualcosa che, con la dovuta organizzazione e flessibilità, può persino rivelarsi una risorsa: lavorare è stimolante e spesso stare a casa senza far nulla può rivelarsi un boomerang.
Personalmente, sono stata una madre lavoratrice autonoma fortunata. Ho sempre continuato a lavorare, e ho potuto conciliare grazie a nonni numerosi e presenti e asili nido che mi hanno sempre supportato. E anzi vorrei spendere una parola proprio sugli asili nido: Valentina Simeoni dice che spesso le madri non li scelgono per una questione di soldi. Tuttavia io conosco moltissime madri che non li hanno mandati per diffidenza e proprio in nome di quella “simbiosi” madre figlio che a mio avviso è un po’ sopravvalutata anche oggi e forse – se posso avanzare un piccolo rilievo critico – dalla stessa autrice. Che pure, però, parla giustamente della centralità del ruolo paterno e ricorda il bellissimo proverbio secondo cui per crescere un bambino “ci vuol un villaggio” (ma allora bisogna che le donne si fidino di più e si affidino di più e che le figure di cura intorno a un bambino, fin dai primissimi giorni, siano tante. Secondo me non c’è nulla da perdere).
Sono stata fortunata, dunque, eppure non vuol dire che la mia conciliazione sia stata facile. E forse non è un caso che la notte dopo aver letto il libro ho sognato di essere incinta e partorire con facilità altri due figli, ma poi trovarmi in un contesto strano, dove nessuno riconosceva questo fatto e io rischiavo di morire sotto un tram. Ma venendo dall’onirico al politico: proprio in questi giorni il governo si appresta a introdurre una flat tax del 15% anche per le partite Iva che guadagnano più di 30.000 euro. Una misura giusta, non c’è dubbio, bisogna aiutare il lavoro autonomo che è in vera sofferenza, ma che forse non risolve i problemi di questo esercito di madri che stanno ben sotto la soglia dei 30.000 (a volte pure quella dei 10.000) e che avrebbero bisogno di ben altro. Asili nido gratuiti, ad esempio, e con orari flessibili, sgravi sull’assunzione di baby sitter, congedi di paternità lunghi ed estesi, assegni familiari consistenti anche se non si è dipendenti. Ma soprattutto, prima di tutto ciò, avrebbero bisogno di un riconoscimento pubblico del loro lavoro, di cui nessuno parla. Perché chi riesce a crescere figli in mezzo agli ostacoli più ardui, saltando notti di sonno, rinunciando a tutto, lottando per poche migliaia di euro a fronte di professionalità spesso altissime avrebbe diritto, quantomeno, e soprattutto nel paese della retorica della vita e degli inviti a fare figli, ad una maggiore visibilità.
Il Fatto.it 20 agosto 2018
Foto di Tatiana Syrikova per Canva