Intervista a Franco la Cecla
Il cibo? Solo una delle pratiche della vita quotidiana, che prende valore unicamente quando fa parte di momenti che sono effettivamente conviviali, dialogici, occasione per spartire insieme al pane e alla pasta molto altro. No allora agli chef stellati in tv, ad eventi e convegni legati al cibo, a foto del cibo postate ovunque, a ricette come opere d’arte. A puntare il dito contro il trionfo del cibo in sé e per sé è l’antropologo Franco La Cecla, nel suo ultimo pamphlet Babel Food. Contro il cibo kultura (appena uscito per il Mulino). Basta con il cibo sbandierato come cultura perché non “non è vero che un piatto di pasta valga come un Tintoretto, non è vero che un buon pranzo abbia lo stesso valore dei dialoghi socratici” . Basta con l’ossessione culinaria che ci rende tutti come anoressiche fissate con il cibo che, invece di essere eletto a valore morale, dovrebbe essere relativizzato per ciò che è: cibo e basta. Tanto più che il cibo smette di essere cultura “proprio nel momento in cui prende il primo posto, oscura con la sua prepotenza e i suoi selfies i volti di chi prepara da mangiare e di chi mangia insieme”.
Quindici anni fa, lei scrive, bisognava battersi per dare alla dimensione quotidiana del cibo il valore di una costruzione culturale. Oggi, tra chef in tv e manifestazioni culinarie, bisogna battersi per l’opposto.
Il problema è che il cibo è stato decontestualizzato, dimenticando che esso ha valore per tutto il contesto che ha intorno. Il cibo è anzitutto convivialità, non esiste l’oggetto “piatto” da solo, ma sempre all’interno dei legami che le persone intrecciano attraverso il cibo sia a livello familiare che sociale. Soprattutto, poi, c’è un rapporto con la geografia dei posti, con i momenti, con le stagioni: invece è come se ci fosse un eccesso di morbosa attenzione al cibo in sé e una totale dimenticanza di quello che effettivamente il cibo è e di quello che diventa in quanto tramite di relazioni.
Lei parla di una narrazione speciale in cui il cibo è un atto che obbedisce alla preoccupazione di non rompere catene alimentari, non turbare equilibri naturali, non accrescere l’ingiustizia del mondo, non inquinare il pianeta. Cosa pensa di questa narrazione?
È solo in parte corretta, perché è una narrazione che trasforma il cibo in un fatto morale, politico, bisogna mangiare in un certo modo perché così si sta meglio, si è vegani perché si è giusti nei confronti del pianeta, tutto questo è in parte vero ma in parte è una snaturalizzazione. Ciò che voglio dire è che l’unico discorso che il cibo fa è se stesso, costruirci intorno delle narrazioni significa in qualche modo espropriare il cibo di quello che è, cioè passare da un livello del gusto a un livello della giustificazione morale. Le faccio un esempio: sono stato in Giappone, quando dicevo che le alghe facevano bene i giapponesi si mettevano a ridere, perché il cibo non è qualcosa che fa bene o che è giusto ma è ciò che si mangia per tradizione o per abitudine. Noi stiamo trasformando il cibo spostandolo di livello, dal livello del gusto, quasi inconscio, come gesticolare, camminare, al livello dell’assoluta coscienza e al principio morale di giusto, di sano.
In che senso?
Ci sono dei livelli della cultura umana che sono al di sotto della coscienza, le abitudini, le tecniche del corpo le chiamava Mauss, che però se cambiano livello vengono snaturate. Il cibo è una di esse. È come se la gente non riesca più a mangiare in maniera inconscia: non va più a mangiare una cosa per stare insieme, ma c’è un’attenzione costante a ciò che si sta mangiando. Poi ci sono i grandi eventi legati al cibo, le foto del cibo: siamo come degli anoressici, ossessionati dal cibo, mentre dovremmo imparare a relativizzarlo. Il cibo è cibo. Basta.
Cosa pensa di Slow food?
È stata ed è una grande rivoluzione perché sicuramente ha posto l’accento non solo sull’importanza dei cibi sani ma anche sul fatto che un cibo è legato a un mondo agricolo che deve essere mantenuto sano. Oltre tutto, è il più grande movimento interclassista d’opinione e politico degli ultimi anni, ha avuto un impatto straordinario a livello mondiale, influenzando anche gli Stati Uniti. Io credo però che stiano rischiando di perdere quello che hanno guadagnato, l’Expo ha dimostrato in maniera tragica che in realtà il lavoro fatto da Slow Food serve a coloro che fabbricano come sempre cibi che fanno male, che sono fatti con gli Ogm, in maniera ingiusta: a Expo qualunque cosa andava bene tanto tutto è cibo e questa è la tragedia, perché il grande lavoro di Slow food era distinguere. Oggi con il pretesto del discorso culturale, anche la Del Monte, anche il Mac Donald, va bene. Il mio libro è scritto anche per Slow Food, per dire, attenti, vi stanno rubando anni di lavoro.
E Farinetti?
Farinetti è un tipo simpatico, la sua operazione commerciale è molto brillante, ma di nuovo, Eataly rischia di snaturare Slow food perché quello che succede è che c’è un po’ di tutto, la componente di attenzione al mondo contadino e agricolo è messa sotto gamba. Detto questo è una grande idea, che ha portato in avanti l’industria dei consumatori, che ha avuto più successo dell’analoga Wholefood americana perché c’è una componente italiana, l’idea del rinascimento, della dolce vita. Ma il rischio, dicevo, è quello di buttarsi troppo sull’assoluto qualunquismo.
Lei difende il cibo come atto privato. Un tempo, scrive, ci si vergognava di mostrare se stessi in preda alle proprie brodaglie e puzze, oggi sembra che i piatti vadano mostrate come una collezione di quadri o ceramiche. Come mai questo rovesciamento?
È come se tutto il cibo fosse oggi in procinto di essere derubricato a livello degli chef e si stesse perdendo il livello delle mamme, dell’alimentazione popolare, che è stata la grandezza italiana. L’Italia non ha mai avuto una grande cucina di livello, la sua grandezza sta nella cucina popolare, oggi “rubata” dai grandi cuochi. Si sta perdendo anche l’idea che il cibo sia non solo ristorante o ristorazione di alto livello ma anche pranzo o cena popolari. E stiamo perdendo i luoghi, una delle grandi differenze culturali in Europa: i ristoranti stanno avendo la meglio sulle trattorie, posti dove si fa veramente la cultura della convivialità.
Lei racconta cosa succede quando il cibo scavalca i confini geografici: c’è uno scollamento tra il contesto in cui questo cibo ha assunto pratiche, gusto, attribuzione di senso e la cornice in cui esso viene giocato. È il babel food, la carne argentina a Singapore, il sushi a Bologna, il kebab a Washington.
Da questo punto di vista la pasta italiana è proprio uno dei cibi che ha creato per primi lo scollamento: la pasta infatti è sia un cibo molto nostro e domestico sia uno straordinario caso di successo di globalizzazione attraverso l’emigrazione italiana, che ha molto a che fare con l’idea di un cibo mondiale. Per un verso la globalizzazione fa saltare tutto, e non è che sia per forza male, l’importante è essere coscienti che c’è una differenza tra la pasta che uno si mangia in piedi a New York e quella in una trattoria locale. La cosa impressionante per il successo della pasta è che la formula che ha funzionato per la pasta è molto made in Italy perché siamo riusciti a vendere il nostro provincialismo come globalizzazione e infatti il nostro sistema alimentare non è un caso è stato un volano della moda italiana: prima abbiamo esportato il cibo, poi la moda.
Lei critica i ristoranti etnici come illusione di fare un viaggio nell’altrui gusto, quando per entrare nel sistema alimentare di un’altra cultura è necessaria la frequentazione quotidiana di un milieu culturale e geografico.
Se uno mangia pezzi di foca a Milano non è che capisce cos’è la cultura eschimese, al massimo ne coglie un aspetto minimo; non c’è nulla di male, anzi la cucina è interessante perché spesso la grande base della tolleranza è la curiosità verso le altre culture, ma non bisogna illuderci che la cucina cinese sia quella che si mangia a Milano. Come è comica l’idea di un “ristorante italiano”, noi andiamo dal sardo dall’abruzzese, ma l’italiano in sé esiste solo come finzione all’estero.
Si può dire che oggi mangiare bene divida ricchi e poveri come ieri, se non di più?
Il cibo come manifestazione di ricchezza ed è molto umiliante per quelli per cui il cibo è un pranzo e una cena. E’ aumentato sicuramente il divario. Non solo, il cibo è diventato una demarcazione tra ricchi. Uno dei motivi per cui ho scritto il libro era che a Palermo i mafiosi fanno finta di avere cultura solo perché sanno distinguere tra l’Inzolia e lo Chardonnay. Chi sa bere è uno che ha cultura, ma quando mai.
Huffington Post 16 febbraio 2016
Foto di Ready Made per Canva