Pensare che il ginecologo, prima dell’ecografia, mi disse: signora, facciamo anche un dvd?”. Ilaria oggi ha 49 anni. Mentre parla sua figlia schizza velocissima da una parte all’altra della stanza. La sua prima gravidanza, racconta, è arrivata molto tardi, quando aveva già 42 anni, ma lo stupore e l’emozione di essere incinta si sono interrotte al primo controllo medico: l’embrione non si era formato. “Dopo un anno”, continua, “ero di nuovo incinta, ma le Beta Hcg non crescevano, così ho avuto un secondo aborto spontaneo. Per fortuna alla fine, proprio dopo la scomparsa di mio papà, è arrivata Sofia. Ma nel frattempo ho scoperto che era capitato a tantissime mie amiche”.
Proprio come Ilaria, infatti, chi passa attraverso l’esperienza dell’aborto spontaneo scopre, ma purtroppo quasi sempre solo successivamente, che si tratta di un evento frequentissimo (accade nel trenta per cento delle gravidanze). Perché, mentre sull’aborto volontario e sulla legge 194 ci si scontra di continuo, all’aborto spontaneo si arriva sempre impreparate: siti di gravidanza on line a parte, nessuno ne parla, anche se riguarda decine di migliaia di donne ogni anno. E spesso è uno spartiacque drammatico. “Lì per lì non mi ha consolato il fatto che fosse accaduto a tante altre: ho passato molti mesi in uno stato semi-confusionale, di shock”, sussurra Ilenia, insegnante, che ha 40 anni e parla mentre suo figlio di quattro anni dorme sulle sue gambe. “Ricordo che il fine settimana, quando non lavoravo, ero totalmente assente, non avevo voglia di fare nulla, avevo crisi di pianto al lavoro: ho avuto bisogno di tempo per distaccarmi da questa idea di bambino che già avevo dentro di me”.
Non per tutte, ovviamente, l’aborto spontaneo si rivela un evento traumatico. Non lo è stato, ad esempio, per Valentina, che ha trentasei anni ed è incinta di cinque mesi. “Ho avuto due aborti spontanei prima di questa gravidanza, eppure li ho vissuti entrambi bene. Forse perché, essendo buddista, credo in una forma di saggezza del corpo e anche nel fatto che sono i figli a scegliere noi, non viceversa. Insomma per me restare incinta e abortire è stato un modo per avvicinarmi all’idea, fino ad allora molto lontana, che la gravidanza è una cosa che mi poteva riguardare”.
Dopo lo shock, la confusione
Eppure, in una cultura dove si fanno troppo pochi figli rispetto ai desideri reali e dove, mentre si stigmatizza chi abortisce volontariamente, si ignorano i vissuti di chi invece la gravidanza vorrebbe portarla avanti e non ci riesce, ci vogliono spalle forti per vivere l’aborto per quello che è, e cioè un evento naturale, fisiologico. È difficile soprattutto quando non si è più giovanissime o, peggio, quando si proviene da un percorso faticoso di fecondazione assistita, come è accaduto a Sara, che di lavoro fa proprio l’ostetrica: “Ho vissuto questa esperienza due volte e nel secondo caso si trattava di una gravidanza gemellare, cercata dopo un’inseminazione artificiale. Dopo, ho dovuto cercare un sostegno psicologico, per me è stato un lutto: sono arrivata in ospedale che ancora sentivo entrambi i battiti, poi li ho persi nella notte”.
Al dolore si aggiunge, spesso, anche la confusione sul da farsi dopo la diagnosi di aborto interno. Perché i pareri dei medici, e anche i protocolli delle strutture ospedaliere, non sono sempre unanimi. Così, c’è chi consiglia un intervento immediato, il raschiamento in ospedale in anestesia totale, spesso preceduto da una dilatazione farmacologica del collo dell’utero, e c’è chi invece suggerisce di aspettare che l’espulsione avvenga naturalmente, a prescindere da ciò che le donne sentono come la scelta più vicina al loro modo di essere. “Per me era inaccettabile farmi mettere le mani addosso da qualcuno”, continua Ilenia. “E poi volevo accompagnare fino alla fine ciò che avevo dentro perché non sopportavo l’idea che fosse disperso nei rifiuti. Così ho seppellito il materiale che avevo espulso nel vaso di ortensie di mia nonna e quando la pianta si è seccata ho fatto una specie di memory box, con un po’ di terra del vaso, i fiori ricevuti quando ero rimasta incinta e il biglietto di un’amica”.
La solitudine delle ex mamme
Alle donne che, invece, scelgono di andare in ospedale, magari perché l’attesa e la paura di ciò che può accadere possono essere snervanti, può capitare di finire in un reparto maternità insieme ad altre mamme che hanno partorito. “Prima avevamo molti posti liberi in ginecologia, oggi purtroppo meno”, spiega Francesca La Rosa, ostetrica di lunga data presso l’Ospedale Cristo Re di Roma. “Però cerchiamo di avere un occhio di riguardo per le donne che arrivano per un raschiamento (tante, tre su dieci) e facciamo di tutto per metterle in una stanza separata”.
Ma al di là di questa convivenza di dolore e di felicità, e nonostante molti ospedali si siano attrezzati anche con psicologi per aiutare chi ha vissuto un’esperienza spontanea, i medici continuano a non essere formati per assistere chi vive un aborto, a partire dal momento in cui devono comunicarlo. “La mia ginecologa è stata molto fredda, mi sarei aspettata un minimo di sostegno, anche perché ero arrivata di corsa, da sola, dopo l’ufficio. È stato quasi più carino il tassista che, mentre mi riaccompagnava a casa, vedendomi piangere mi ha chiesto come stavo e ha cercato di farmi coraggio”, racconta Roberta che, dopo un aborto spontaneo quando era già vicina ai quaranta, oggi ha un bimbo di quasi tre anni.
Eppure, anche per chi sta dall’altra parte dello schermo ecografico diagnosticare un aborto spontaneo non è per nulla facile. “Dire a una donna che la sua gravidanza si è interrotta è un’esperienza particolarmente drammatica, perché l’attesa di condivisione di emozioni felici si tramuta nella comunicazione di un evento di morte”, spiega Silvana Patricelli, ginecologa ed esperta di ecografia ostetrica del Melograno, Centro informazione maternità e nascita di Roma. “Le donne restano scioccate, soprattutto incredule, piangono. Per questo io da tempo mi sto interrogando su come prepararle a questa possibilità, anche se non è facile dire a una donna incinta che in tre casi su dieci si andrà incontro a un aborto. Provo a farlo indirettamente, invitando a non divulgare troppo la notizia, ma soprattutto a riposarsi e a fare cose piacevoli proprio nelle prime settimane, dove la labilità della gravidanza è maggiore. Come a ricordare che, per dirla con una battuta, si diventa incinte poco a poco”.
Nel frattempo, c’è chi tenta di rompere l’incomprensibile silenzio che circonda le “ex mamme” tornate a casa. Ad esempio, la onlus Ciao Lapo (http://www.ciaolapo.it) che, oltre a celebrare ogni 15 ottobre la Giornata del lutto perinatale, dà informazioni e sostegno, anche attraverso gruppi di auto aiuto, a tutte quelle donne e anche uomini che hanno dovuto loro malgrado ascoltare la frase: “Mi spiace, non c’è battito”. E attrezzarsi per andare avanti.
L’intervista a Ivana Arena, ex ostetrica ospedaliera
“Ho visto donne sottoposte al raschiamento senza che venisse offerta loro un’alternativa che invece esiste. L’aborto spontaneo non è un passaggio indifferente nella vita di una donna, e affrontarlo senza poter scegliere e senza essere minimamente accolte, lo rende peggiore”. Ivana Arena, autrice del video “Nascita … non disturbare” e socia fondatrice dell’associazione “Creattivamente ostetriche”, è un’ex ostetrica ospedaliera che oggi, da libera professionista, aiuta le donne a vivere la gravidanza e il parto in maniera il più possibile fisiologica. Ivana è convinta che, proprio come per il parto, anche nell’aborto spontaneo le donne dovrebbero poter scegliere ciò che sentono più vicino al loro modo di essere: l’intervento oppure l’espulsione naturale che, al contrario di quanto talvolta viene detto, nelle prime settimane non è assolutamente pericolosa se non ci sono fattori di rischio o patologie particolari. “Io ragiono come esperta di fisiologia, utilizzando un approccio evoluzionista”, spiega. “Il fatto che siamo sopravvissuti al meglio per centinaia di migliaia di anni come la specie dominante del pianeta, mentre la medicina moderna esiste da pochi secoli, vuol dire che il nostro corpo funziona bene e quello della donna funziona molto bene. Nel parto come nell’aborto, che spesso è una selezione naturale”.
Ma ci sono altre cause dell’aborto spontaneo che magari potrebbero aiutare le donne a prevenirlo? “Tolte alcune patologie, sicuramente abbiamo uno stile di vita che ci porta ad avere un livello di stress cronico troppo alto. Le catecolamine, i cosiddetti ormoni dello stress, possono essere responsabili di aborti, così come di ritardi di crescita intrauterini. E poi c’è un’altra cosa su cui vorrei riflettere: oggi abbiamo la possibilità di sapere che siamo incinte prestissimo, prima del ciclo. Non è detto che sia un vantaggio: un tempo alle donne poteva capitare un ritardo seguito da un grosso ciclo e la cosa finiva lì, l’aborto è un evento che avveniva con una certa frequenza, ma in un contesto in cui le gravidanze erano continue era vissuto in maniera forse più serena”. E, allora, cosa consigliare alle donne? Il raschiamento andrebbe evitato? “Il problema”, conclude l’ostetrica, “è più generale: oggi si corre in ospedale anche per minuscole perdite marroncine, oppure si fanno in continuazione ecografie, o si ricorre al progesterone quando c’è una minaccia d’aborto, anche se non vi è evidenza che migliori l’andamento della gravidanza tranne in casi selezionati. Ma oltre al fatto che le ecografie andrebbero limitate al minimo come ricordato da vari studi, tutte queste cose sono palliativi, non aiutano la gravidanza ad andare meglio, mentre sarebbe molto più importante concedersi il diritto di riposare (e per questo sarebbe più saggio dare alle donne settimane di astensione dal lavoro all’inizio, quando c’è la fase dell’accoglimento). Detto questo, il raschiamento può aiutare la donna a porre la parola fine, ma non fa per tutte. Bisogna lasciare la possibilità di scelta, con un’informazione più corretta possibile e non terroristica. In sintesi: andare in ospedale se si hanno sintomi come febbre alta, brividi, perdite troppo abbondanti. Ma per il resto, più che correre a farsi curare quando non serve, è molto più importante, e forse più difficile oggi, prendersi ogni giorno cura di sé”.
18 novembre 2014 D. Repubblica.it
Foto di Gustavo Fring