Ad aiutarle a superare la resistenza è, quasi sempre, un corso per diventare “operatrici socio-sanitarie”. Una definizione che fa meno paura dell’altra, “badante”, che oltre a essere dispregiativa è sbagliata, “perché si badano le bestie, non le persone”, dice Rita, che questo lavoro lo fa, a Roma, da 27 anni. Così, in questi ultimi dieci anni, le donne italiane, anche quelle che di mestiere facevano tutt’altro, hanno cominciato silenziosamente a trasformarsi in assistenti familiari. Gli ultimi numeri Inps parlano di almeno 374.000 badanti “pure” (non colf), in crescita esponenziale, di cui il 24%, circa 213.000 più il nero, sono italiane, ormai la seconda nazionalità dopo le rumene. Ancora più eloquenti i dati che arrivano dai centri e patronati locali: in Toscana, secondo le Acli, le assistenti familiari sono cresciute del 25% in tre anni. Nella provincia di Lecco, come spiegano dal Centro Risorse Donne, si è passati dal 24% al 37%, mentre il gruppo Teleserenità, 40 centri in tutta Italia, spiega che i contratti per le assistenti italiane sono letteralmente raddoppiati.Ma i numeri non raccontano le motivazioni, quasi sempre dolorose, che hanno spinto donne e uomini a rimettersi sul mercato in questo ruolo. Regina delle cause è, naturalmente, la crisi economica. “Ero impiegata frontaliera con la Svizzera, poi è arrivato il licenziamento”, spiega Alessandra, 44 anni, che oggi, tra l’altro, pulisce uffici – “molto più faticoso” – e fa anche la traduttrice. “Mai con gli anziani, mi dicevo, invece il corso era interessante, ci hanno fatto lezioni su come si tiene pulito il frigo, o come si prende la glicemia, poi ho cominciato”. Anche Patrizia lavorava in una conceria, ma la ditta ha chiuso nel 2007: “Ho sentito che l’operatrice socio-sanitaria era il mestiere del futuro e ho iniziato il corso, anche se avevo 47 anni”. L’altra causa che spinge al salto è la separazione, che spesso porta alla povertà. Oppure una pensione del marito troppo bassa, e magari due figlie disoccupate, com’è il caso di Caterina, che a 71 anni oltre a prendersi cura dell’anziano si occupa di suo figlio “e pure del gatto malato”. Tante però anche le laureate. Sabrina, ad esempio, è restauratrice, “ho lavorato a Villa Torlonia a Roma e restaurato la Barcaccia di piazza di Spagna”. Ma alla fine, concorsi insistenti, non c’era più niente, così anche lei, dopo il corso, ha iniziato ad assistere una disabile. La buona notizia, però, è che una volta superata la vergogna, la maggior parte di chi diventa assistente familiare scopre che questo lavoro può essere persino molto gratificante: “Aiutare gli altri è appagante”, dice Alessandra. “La mia signora poi era fantastica, voleva essere truccata per uscire”. “Ho assistito per anni una signora e le ho voluto bene come una sorella: quando è morta mi ha lasciato una bellissima collana da 2000 euro”, racconta Caterina. “Sono 14 mesi che assisto un novantenne con ictus, per me è come se avessi mio padre vicino e quando vado via lui è tristissimo”, dice Cecilia, 53 anni, di Ardea. Poi c’è Andrea, 50 anni, marchigiano, che dopo aver fatto per anni l’agente di commercio, si è “riciclato” anche lui – sempre dopo la crisi – come assistente familiare. Lavora in zona Monte Amiata con un anziano malato di SLA, allettato e tracheotomizzato. “Per i suoi ottant’anni vogliamo portarlo nella fabbrica di borse che ha creato, ci stiamo attrezzando per trovare una carrozzina per appoggiare il ventilatore”, racconta. “Con gli anziani ci vuole prima il cuore, poi il portafoglio”, chiosa Rita. E proprio quella di mirare prima al portafoglio è una delle critiche che le assistenti familiare italiane rivolgono alle straniere, con le quali c’è una conflittualità neanche troppo latente, che spesso scoppia anche sui gruppi Facebook creati per aiutare l’incontro tra domanda e offerta, come quello di cui è amministratrice Violeta Nazari, oltre 5.000 iscritti (“Il fatto è che la situazione economica è difficile”, mi spiega, “oggi c’è la guerra, ci fanno fare le badanti con la partita Iva”). Le straniere sono accusate un po’ di tutto: di “passare le notti a fumare e chiacchierare” (Cecilia), di “creare conflitto con i parenti dell’assistito” (Andrea) persino di farsi mandare i farmaci dalla Romania per sedare gli anziani. Ma il problema principale resta la loro disponibilità a lavorare h24 sottopagate, in nero, facendo così abbassare gli stipendi, “mentre io ho pulito merda per vent’anni, ma non ho mai abbassato le tariffe”, dice Francesca, preparatissima infermiera torinese. La verità è che mentre le straniere accettano di dormire a casa degli anziani, con tutto quello che ne consegue in termini di depressione per solitudine estrema, le italiane non vogliono lasciare la famiglia (anche se c’è chi è fortunata, come Francesca, vedova, che ha potuto portare dietro la bambina), così cercano lavoro a ore. Che però è poco – “e se devo fare 30 kilometri devo almeno fare sei ore, sennò non mi conviene”, dice Patrizia – oppure è sottopagato se si passa per agenzie, cooperative, centri privati, “che magari ti chiamano la sera per le sei di mattina, oppure se ti fanno un contratto ti danno una parte in buoni pasto per non pagare i contributi”. “Niente agenzie, prendono 50 dall’anziano e me danno 30, io gli annunci li metto in giro”, dice Stefano di Verona. A quel punto, con poche ore, basta una malattia per smettere di lavorare del tutto e restare senza neanche il sussidio, come è capitato a Rita, che ha avuto un melanoma al piede. E lo spettro della povertà, quello che si voleva scacciare provando a fare “la professione del futuro”, ritorna. Le ultime voci sono quelle di Mirta, che oltre al lavoro ha perso i bambini, messi in casa famiglia in attesa che lei abbia un reddito. E infine Clara, 55 anni, separata, che riceve 150 euro dal marito. È caduta in depressione, mangia alla Caritas oppure solo pane e latte. E oggi, dopo che la signora che assisteva è deceduta, ha solo un’entrata. “Pulisco le tombe in cambio di qualche euro che mi danno i parenti. Sì, le tombe. E ora devo andare”. Pubblicato su Il Fatto quotidiano.
Novembre 2017