“Settimo mese. Luglio. Caldo. Afa. La pancia che diventa sempre più ingombrante e io che vorrei strapparmi via non solo i vestiti, ma pure questo alieno che sta piano piano occupando tutto il corpo. Attacchi di panico. Corse in ospedale. Vi prego, ricoveratemi”. Non c’è nulla di più lontano dalla drammatica richiesta di Anna che l’immagine stereotipata della gravidanza che ogni giorno ci offrono tv e web: donne forzatamente sorridenti, vestite color pastello, magari in posizione yoga, con un bicchiere di latte in mano. Ma, spesso, la vita vera è altrove. Ad esempio in quelle parole, nelle quali si possono riconoscere moltissime donne in attesa. Donne che vivono la gestazione all’insegna dell’ansia continua che possa capitare qualcosa al bambino e al tempo stesso, per quanto contraddittorio possa sembrare, di un rifiuto di quello stesso figlio tanto cercato e amato. E poi il post parto e l’allattamento, anche quello raccontatoci dal senso comune come l’esperienza più idilliaca che una donna possa fare. E invece: “Ogni volta che lui si attacca io piango dal dolore. I capezzoli mi sanguinano. Ogni poppata un calvario”. Anna, Aurora, Dalia, Elisabetta, Mara, Margherita, Francesca, Silvia, Sofia, Ramona, Anastasia, Adele, Valentina: sono le voci collettive del libro Mamme sottosopra. Testimonianze di vittoria sulla depressione in gravidanza e nel post partum (L’Asino d’oro edizioni), a cura dell’Associazione di volontariato Progetto Ilizia. Storie diverse tra loro, eppure accomunate da una narrazione della gravidanza lontana dagli stereotipi. Fatta di paura e dolore, sensi di colpa e insonnia. E di un’ambivalenza verso il bambino in arrivo che quasi viene mai compresa . Queste donne, in molti casi fuorviate da medici che fanno loro smettere all’improvviso ogni terapia – anche se oggi sappiamo che è un errore, c’è una buona parte di psicofarmaci che è compatibile con la gravidanza-, spesso lasciano il lavoro e ritornano a casa dei genitori. Mentre il rapporto col partner, quell’uomo col quale pochi mesi prima ci si abbandonava ridendo per cercare un bambino, si fa progressivamente più teso: la sofferenza prolungata logora anche i padri, segnati dall’impotenza di fronte a un malessere di cui si fa ancora fatica a capire le cause. “Io mi sono sempre sentita un’aliena, pensavo di essere l’unica al mondo a vivere un’esperienza simile. Ho scoperto invece che le maternità travagliate sono tantissime”, scrive Mara. Ed è proprio l’isolamento il primo nemico da demolire, cominciando – ad esempio – a parlare di un fenomeno poco noto come la depressione in gravidanza. Perché quando le donne scoprono di non essere sole, quando trovano una terapia, anche farmacologica, che le sostenga, quando chi è intorno a loro viene informato che l’ambivalenza, il dolore e la paura possono essere normali, gli incubi si fanno via via più lontani. E, come scrive sempre Anna, si può tornare finalmente a pensare: “Ho ancora troppa vita da vivere. E un figlio meraviglioso da accompagnare nel mondo”.
Il fattoquotidiano marzo 2017
Foto di Georgia Maciel