Emotivamente sfiancante e sempre più costoso, in termini di soldi e denaro. Crescere figli oggi comporta un investimento di risorse economiche e psicologiche che però spesso rischia di essere persino controproducente. A lanciare la provocazione è il New York Times che pubblica una lunga inchiesta a firma di Claire Cain Miller, The Relentlessness of Modern Parenting. Il bersaglio è la cosiddetta “genitorialità intensiva”, un termine coniato dalla sociologa Sharon Huys che descrive uno stile genitoriale “sempre più centrato sul bambino, affidato agli esperti, emotivamente assorbente, finanziariamente costoso”.
Al contrario di quanto si crede, infatti, i genitori lavoratori di oggi passano con i figli lo stesso tempo delle madri casalinghe degli anni Settanta. Cambia anche il modo di stare con i bambini: si legge con loro, li si accompagna alle loro mille attività, si partecipa alle loro recite e giochi, si guarda persino la televisione insieme, si condividono i compiti: 5 ore a settimana rispetto all’ora e 45 minuti del 1975. Figli sempre più intrattenuti invece che semplicemente “amati e disciplinati”.
L’ansia della retrocessione sociale
Ma cosa spinge i genitori a dedicarsi così affannosamente ai propri figli, investendo grandi quantità di tempo e denaro? Gli scienziati sociali non hanno dubbi: la motivazione è l’ansia economica, il terrore che i propri figli avranno una vita meno prosperosa o finiscano in una classe sociale inferiore. Di qui il modello di genitorialità intensivo e “ansiogeno” – spiega la filosofa e sociologa Giorgia Serughetti – “che risponde in pieno alla concezione capitalistica dell’individuo imprenditore di se stesso. In questa logica, i figli non sono un’apertura al futuro, al rischio, all’imprevisto, al diverso da sé, ma piuttosto una componente centrale di un progetto di vita pensato come investimento imprenditoriale”.
L’altro fenomeno che il New York Times segnala è che, mentre questa educazione è stata la norma delle classi benestanti fin dagli anni 90, oggi le nuove aspettative hanno permeato anche i genitori di classi inferiori, persino coloro che non hanno mezzi per sostenere questo tipo di educazione. Insomma la genitorialità intensivaè diventata il modello culturale dominante, anche per chi non può frequentare elitari club sportivi o costose scuole di musica. E che per questo, magari, come spiega il pedagogista Benedetto Vertecchi, “finisce per ripiegare su prodotti di consumo, ben diversi dalle opportunità basate sull’interazione – lingue, sport, musica – appannaggio delle classi alte. In America come in Italia”.
I genitori? Esausti e pieni di sensi di colpa
Il problema è che, mentre si alza l’asticella degli standard educativi non aumentano i supporti per i genitori che lavorano, come i congedi parentali, i sussidi, gli orari flessibili, mentre si riducono anche le reti informali di aiuto. La conseguenza è che i genitori, in particolare le madri, sono stressati, esausti e pieni di sensi di colpa. E per dedicarsi a tempo pieno ai figli tolgono tempo ai partner, agli amici, ai momenti di piacere, al sonno. Molte donne interrompono la propria carriera oppure sono decidono di non fare figli. Altre, già madri, si limitano a un solo figlio nel timore di non poter garantire lo stesso standard educativo agli altri. “Mentre nel dopoguerra la diminuzione del numero dei figli e un maggiore investimento sulla qualità erano avvenute contestualmente a un’espansione dei sistemi di welfare e crescita economica, oggi il sistema di welfare non è più in espansione e l’ascensore sociale si è in buona parte bloccato”, spiega il demografo Alessandro Rosina, (ultimo libro: Il futuro non invecchia, Vita e Pensiero). “Non sorprende che i figli siano sempre di meno”, dice a sua volta Serughetti. “Non è solo un problema di difficoltà economica, è anche una ricaduta del modello di genitorialità, soprattutto di maternità, che impone una presenza e una dedizione che semplicemente molte donne non possono permettersi”.
Se l’eccesso di attenzioni è un boomerang
Mentre i genitori si affannano, gli psicologi lanciano l’allarme sull’alto livello di stress che questo clima emotivo comporta e sul deficit di indipendenza e sicurezza in se stessi. Alcune ricerche hanno hanno mostrato che bambini con genitori iper-coinvolti hanno un livello più alto di ansia e meno soddisfazione verso la vita, mentre i bambini che giocano senza supervisione costruiscono competenze sociali e pratiche e maturità emotiva. “Questa crescita di attenzione e investimento, a volte ossessivo, verso i figli”, dice Rosina, “rischia di produrre da un lato lato fragilità nei giovani stessi per eccesso di aspettative dei genitori nei loro confronti, dall’altro diseguaglianze crescenti per il peso crescente che le risorse culturali ed economiche della famiglia di origine”. “Se l’agenda piena è stancante per noi adulti figuriamoci per un bambino. Non sono rari, infatti, problemi legati all’autostima, episodi di ansia, difficoltà ad addormentarsi o abbassamento del rendimento scolastico”, argomenta Marta Giuliani, psicologa dell’età evolutiva (ordine degli psicologi del Lazio). Molto critico anche il professor Vertecchi: “Paradossalmente la generazione precedente era molto più libera di quella attuale, anche di girare per le strade. Oggi invece sembra che la preoccupazione principale sia quella di non lasciargli un minuto libero, tanto che c’è da chiedersi come possano sviluppare qualcosa che non sia il risultato di un condizionamento dei genitori”. Cosa si potrebbe fare, allora? “Senza dubbio”, conclude Vertecchi, “sarebbe opportuno rispolverare l’educazione negativa teorizzata da Rousseau, ossia limitarsi a stare attenti che i bambini non si facciano male, invece di considerarli come un valore da non lasciare mai incustodito. Anche perché chi sostiene la necessità della presenza continua dei genitori non spiega le ragioni scientifiche per cui tale presenza ininterrotta sarebbe necessaria. Né quali benefici realmente porti”.
29 dicembre 2918 Il Fattoquotidiano
Foto di Tatiana Syrikova