“Se è capitato a mio figlio che una persona si alzasse o non volesse sedersi accanto a lui sul treno o sull’autobus? Ma certo, guardi che questa cosa gli succede spessissimo: le persone si spostano, oppure stringono la borsa più forte. Pensi che una volta gli hanno rifiutato un posto come commis di sala in un albergo, nonostante avesse studiato tre anni per farlo, perché non volevano persone di colore. Eppure siamo brasiliani”. Ester vive in Italia da sempre, a Prato, è sposata, lavora e parla un italiano fluente, con un leggero accento. Spiega che gli episodi di razzismo non hanno smesso di accadere neanche a lei, in particolare, racconta, il fatto “di non essere servita nei negozi”. “Puoi aspettare anche tantissimo, fanno finta di non vederti. L’ultima volta mi è successo in un bar, ho protestato come sempre, ma la signora alla casa mi ha ignorato. Una volta non mi hanno fatto entrare in una gioielleria, nonostante io bussassi il campanello. Ma la cosa più grottesca mi è capitata quando la badante moldava di mio suocero è stata aggredita: il poliziotto a cui cercavo di spiegare l’accaduto a un certo punto si è voltato e ha detto a un’altra persona: ‘Mi spieghi lei che è italiano che con questa non capisco nulla’”.
A parlare con chi in Italia vive e lavora da anni (o decenni) si capisce che il razzismo da noi è qualcosa di costante. Un fatto con cui devono fare i conti, e a cui sono, in qualche modo, rassegnati, tanto da non stupirsi neanche troppo degli episodi recenti accaduti in Italia: come quello dell’uomo che su un volo Ryanair uomo si è rifiutato di stare seduto nel sedile accanto a una donna nera e ha preteso che le hostess la spostassero altrove. O della signora che su un Frecciarossa Milano- Trieste si è rivolta a una giovane ragazza dicendo di non volersi sedere vicino a una, o del giovane senegalese insultato su un autobus Flixbus . Tutti concordano, però, sul fatto che ci sia un aumento di violenza, come testimoniano alcuni episodi: i due extracomunitari picchiati con mazze da baseball a Brindisi, o il giovane senegalese che stava andando al lavoro in un panificio di Morbegno ed è finito ospedale dopo un’aggressione.
“Il problema”, spiega Margherita, bolognese, tre figli, sposata con Alvin, nato alle Seychelles ma bolognese come lei, “è che oggi i razzisti si sentono legittimati, avvalorati in ciò che dicono, spalleggiati, mentre prima non era così”. “Mio marito Alvin è arrivato qui in terza elementare, parla in dialetto bolognese, viene da una famiglia cattolica, ha fatto persino il chierichetto! Abbiamo due ottimi lavori, siamo benestanti, super integrati eppure, pensi un po’, l’altro giorno l’ho trovato che mandava il curriculum senza foto, per la paura di essere scartato. Insomma, puoi essere ricco e integrato quanto ti pare, ma se sei di colore devi essere bravo diecimila volte più degli altri per stare alla pari”. Margherita, che è un fiume in piena, parla con in braccio l’ultima bambina di 18 mesi, poi ci sono due bambini di otto e nove anni, “battezzati e comunicati”. E proprio di uno di loro, racconta, è stato vittima di insulti, “‘vai a fare la religione del paese tuo, tua madre puzza, tuo padre viveva nelle capanne’ gli hanno detto. Lui ha cominciato a regredire, somatizzare, faceva la pipì nel letto, alla fine gli ho dovuto cambiare scuola”. Però la cosa più fastidiosa, dice, sono gli episodi di razzismo striscianti. “Vogliamo parlare della vicina che ti citofona dopo che hai appena partorito per chiederti di che colore è il bambino e dopo che l’ha vista dice ‘carina per essere negretta’? Oppure di quelli che ti dicono che le fidanzate dei tuoi figli maschi saranno fortunate, alludendo al fatto che quelli di colore avrebbero il pene più lungo? O, da ultimo, quest’estate al mare, di una signora che, dopo aver chiesto ai miei figli da dove provenissero, si è accanita su mio marito arrivando a chiedergli se avesse i documenti a posto?”.
Il passaggio dallo sguardo allo spintone
“Il razzismo c’è sempre stato, ma oggi le persone hanno il coraggio di comportarsi da razzisti perché credono di essere nella parte giusta, e iniziano a esagerare, dallo sguardo passano allo sputo e allo spintone”. Sana, di origini giordane, ha due ragazzi, vive a Roma, da oltre vent’anni, suo marito lavora, i suoi figli sono tutti nati e andati a scuola in Italia, pur avendo un nome arabo. “Quando sono arrivata qui mi sembrava tutto bellissimo”, racconta, “ma solo perché non capivo la lingua. Poi ho cominciato a realizzare, a sentire i commenti sull’autobus o quando andavo dalla pediatra. Allora portavo il velo, ma a un certo punto ho deciso di toglierlo: è successo dopo che ho subito un’aggressione vicino a un parco, era d’estate, ero sola con i bambini. Tre ragazzi mi hanno circondato e dato calci, prendendomi in giro, ‘Sei la sorella di Bin Laden’. Da allora ho smesso persino di sedermi sull’autobus, preferisco stare in piedi”. Ma anche per Sana il peggio è successo al suo secondo figlio. “È stato vittima di commenti e minacce, ‘siete venuti coi barconi, abbiamo bruciato un barbone e ora facciamo la stessa cosa con te’, cose orribili. L’ho detto alle maestre, ma nulla, poi alla direttrice, nulla, alla fine sono andata dai carabinieri a fare denuncia”.
Se poi non sei ‘mezzo bianco’ ma nero e basta, allora i pregiudizi si fanno ancora più consistenti. “Proprio di recente volevo sedermi sul treno per andare a casa, una signora mi ha detto che il sedile accanto a lei era occupato, ma poi l’ha ceduto subito a un altro. Per noi è un continuo di episodi così”. Parla Cynthia, 48 anni, di origini nigeriane, in Italia da oltre vent’anni, dove gestisce insieme a una parente, un negozio di parrucchiere in una zona centrale di una città d’arte. “Lei non si immagina quanti clienti arrivano e mi chiedono dove sia la padrona, non riescono a pensare il negozio possa essere nostro, o di quanti uomini entrano convinti che facciamo ‘massaggi’. Nel nostro condominio, siamo le uniche straniere, solo due persone su sette ci salutano, le altre mai. Nel duemila non era così, le cose sono peggiorate. Adesso noi abbiamo paura degli italiani e loro hanno paura di noi. È assurdo”.
Quando il razzismo diventa istituzionale
L’Italia è diventato davvero un paese più razzista? E quanto contano le parole delle istituzioni su immigrati e clandestini? Risponde Annamaria Rivera, già docente di Etnologia e antropologia sociale all’Università di Bari e studiosa e attivista antirazzista. “Episodi di razzismo di tal genere si verificano dacché esiste l’immigrazione. Ma, dal momento in cui si è insediato il governo attuale, vanno moltiplicandosi. È vero che da parte di alcuni organi di stampa vi è maggiore attenzione rispetto al razzismo quotidiano. Ma il fatto è che quando il razzismo viene legittimato o addirittura praticato dalle istituzioni ciò concorre a incrementare, in un circolo vizioso, il razzismo detto ‘spontaneo’ o ‘popolare’. È ciò che può definirsi ‘socializzazione del rancore’”. Concorda sul peso delle esternazioni dei politici anche il sociologo Pietro Basso, per molti anni direttore del Master sull’immigrazione all’Università Ca’ Foscari, e autore del libro Razzismo di Stato. Stati Uniti, Europa, Italia (Franco Angeli editore). “Non si possono avere dubbi a riguardo. Se il ministro della polizia dedica la quasi totalità dei suoi messaggi a criminalizzare degli immigrati questo conta, altro se conta! Il razzismo è anzitutto un prodotto istituzionale, statuale”. “La violenza privata che si esprime nel razzismo quotidiano deriva dalla maniera in cui lo Stato si comporta. È evidente che i discorsi di Salvini incoraggino le persone ad essere razziste”, chiosa lo scrittore e poeta marocchino Tahar Ben Jelloun, noto per i suoi scritti su immigrazione e razzismo e autore del libro La punizione e Il razzismo spiegato a mia figlia (entrambi Nave di Teseo edizione).
Ma il parallelismo con il fascismo è legittimo o esagerato? Risponde ancora Rivera: “No, la situazione è molto allarmante, presenta qualche analogia con gli ultimi anni della Repubblica di Weimar, quelli che precedettero il nazismo. Il razzismo di Salvini è anch’esso quotidiano, ed è costituito non solo da parole, ma anche da fatti assai concreti: dalla guerra contro le Ong al Decreto-legge, detto, assai significativamente, ‘sicurezza e immigrazione’, fino all’annuncio relativo alla chiusura anticipata dei ‘negozietti etnici’ e solo di questi: cosa, quest’ultima, che ricorda la chiusura forzosa degli esercizi commerciali ‘ebraici’, praticata da regimi totalitari”.
Basso spiega tuttavia cosa si può fare per arginare la deriva e chi dovrebbe intervenire. “I luoghi di lavoro e le scuole sono i luoghi decisivi: è decisiva è la ripresa delle lotte, perché la lotta unisce i lavoratori delle più diverse nazionalità, spazza via questo timore, accomuna, lega, ripulisce i cervelli e gli animi dai veleni. Certo anche gli intellettuali e gli artisti possono dare un contributo a bloccare e rovesciare la tendenza in atto, ma sono a condizione di andare in profondità, alle cause strutturali del razzismo, perché per vincere questa battaglia non bastano certo i buoni sentimenti. Ci vuole una critica affilata del razzismo del mercato, dello stato, dei media e la più incondizionata solidarietà con tutte le forme di contestazione e di opposizione ad esso”. Dice invece Tahar Ben Jelloun: “Invertire la tendenza spetterebbe ai partiti di sinistra, se non avessero purtroppo fallito: se Salvini ha potere, infatti, la colpa è soprattutto loro. Bisognerebbe che gli italiani manifestassero nettamente il loro rifiuto verso questa politica che non risolve alcun problema, al contrario li crea. Ma anche l’Europa, infine, dovrebbe riflettere sul proprio avvenire, perché la sua indifferenza verso il vostro paese, in particolare la mancanza di solidarietà nel momento in cui gli immigrati sulle vostre coste, ha certamente spinto molte persone a votare per la Lega”.
Ottobre 2018, Il Fattoquotidiano.it
Foto di Life Matters