Si pratica sempre di più, magari insieme al pilates e all’ultima dieta del momento. Ma impazza ormai anche nelle scuole, nelle aziende, nei centri di fitness, persino in alcune istituzioni. È la pratica della mindfulness, un mercato in continua crescita da un miliardo di dollari solo negli Stati Uniti. E che comprende anche un migliaio di app che aiutano a calmarsi e decine di migliaia di libri che includono la parola nel titolo. Ma proprio su questa pratica, una sorta di training mentale per trasformare i propri disagi attraverso il controllo di pensieri ed emozioni, si è aperto di recente un aspro dibattito negli Stati Uniti, rimbalzato poi anche sui giornali inglesi. Accusatore numero uno è Ronald Purser, professore di Management alla San Francisco University, esperto di mindfulness e buddista praticante. Nel suo libro McMindfulness: come la mindfulness è diventata la nuova spiritualità capitalista, Purser stronca non solo le innumerevoli app antistress – assurdo rivolgersi a uno strumento digitale per liberarsi dallo stress che la vita digitale ci provoca – ma soprattutto attacca il fatto che la mindfulness sia diventata, perdendo ogni contatto con le sue radici filosofiche e religiose, un business e insieme un perfetto prodotto da vendere, proprio appunto come un BigMac. Non solo: accentuando il fatto che i problemi delle persone sono solo nella loro mente, di fatto li distoglie dalle cause sociali del loro malessere e della loro ansia. Insomma: hai un impiego precario o soffri di burn out lavorativo? Il problema sono sempre i tuoi pensieri. Riducendo però la mindfulness a una banale tecnica terapeutica di auto-aiuto per alleviare mal di testa o diventare più lucidi e produttivi, si conserva di fatto lo status quo della società neoliberale e non è un caso che la mindfulness sia diventata anche una vera manna per le aziende, che possono offrire ai propri dipendenti un comodo metodo per eliminare tossine mentali e migliorare concentrazione e rendimento. Ovviamente Purser ci tiene a precisare che lui non intende buttare il bambino con l’acqua sporca, ma sostiene che il fatto che ci siano guru che si fanno pagare 12.000 dollari a giornata mostra come il distacco con le radici etiche sia totale. Tra l’altro, la mindfulness male intesa non solo porta a un rafforzamento dell’ego individuale, il contrario dell’insegnamento buddista, ma fa dimenticare la nostra interconnessione con gli altri e la società e la cultura nella quale siamo inseriti. Il punto è sempre lo stesso: non può esistere una mindfulness eticamente neutrale. Né può esistere una mindfulness totalmente individualistica, finalizzata al proprio benessere e dissociata dalla trasformazione sociale, altrimenti tutto si riduce a un “cerotto per gli stress quotidiani”. Rispetto alla finta mindfulness, per la felicità delle persone funziona molto meglio, conclude Purser, una diminuzione delle disuguaglianze e un massiccia iniezione di diritti sociali nel mondo. Da ricordare, quando si apre l’ennesima app con musica relax.
Febbraio 2019, Il Fatto Quotidiano
Foto di Noelle Otto