Dimenticate l’avocado, cibo modaiolo che impazza in ristoranti onnivori e vegani oltre che su Instagram, dove è uno dei cibi più fotografati. Il riscaldamento globale sta mettendo a dura prova la sua produzione, e infatti i prezzi sono in crescita costante. Il motivo è semplice: occorrono oltre trenta di litri di acqua per produrne trenta grammi, oltre duecentocinquanta litri a frutto, e purtroppo l’acqua è sempre di meno. Ma altre colture, rischiano, proprio come gli animali, di diventare beni rari e preziosi. Il quadro generale del problema l’ha disegnato il penultimo rapporto del comitato scientifico sul clima dell’Onu, l’Ipcc, dedicato al “Cambiamento climatico e territorio” e uscito nell’agosto scorso. Il riscaldamento globale aumenta alluvioni, siccità e desertificazioni, oltre a produrre nuovi e diversi parassiti, e va a colpire direttamente la produzione agricola, proprio mentre la domanda di cibo cresce perché cresce la popolazione globale. Ad essere in pericolo, però, non solo sono cibi di cui possiamo fare a meno, ma anche colture base della nostra alimentazione. Il World Economic Forum ne ha indicate undici, oltre all’avocado. E due di loro sono veri e propri, amatissimi, “confort food”, come il cioccolato e il caffè. Il primo, infatti, cresce unicamente in territori con un suolo ricco e molto umido. Molte piantagioni, però si trovano in regioni dove le temperature stanno diventando più volatili: ecco perché si parla di un calo drastico della produzione entro il 2030. Il secondo è messo a repentaglio dalla crisi delle comunità delle api, perché le temperature alte riducono gli insetti meno resistenti che impollinano le piante. Ancora più grave, in realtà, è il calo previsto nella produzione di tre cereali chiave per il sostentamento globale, ossia il mais, il grano, il riso, che – secondo la Fao – producono il 51% delle nostre calorie. Siccità e alluvioni ne minano la produzione, a fronte di un aumento della domanda del 33% nel 2050. Altra coltura in pericolo è la soya, che potrebbe crollare del 30% entro il 2010 e il problema non è solo la sparizione di tofu e tempeh: la soya infatti è una fonte fondamentale per i biofuel. I legumi più a rischio, strano a dirsi, sono i ceci, che richiedono tantissima acqua (oltre duemila litri per una scatola), mentre la frutta secca più vulnerabile al cambiamento climatico sono le arachidi, molto sensibili agli sbalzi di temperatura. Infine, a rimetterci sono anche moltissimi tipi di frutta: dalle banane, che richiedono acqua consistente e clima moderato, e che tra l’altro oggi sono sotto attacco di un parassita che sta distruggendo le piantagioni, alle delicate fragole; dalla frutta con nocciolo, che cresce precocemente per il caldo salvo essere distrutta poi dal gelo improvviso, all’uva, tanto che anche il vino rischia di ridursi dell’85% entro i prossimi cinquant’anni, a meno che non si comincino a sperimentare altre varietà di viticci più resistenti. Requiem anche per lo sciroppo d’acero, che richiede temperatura alte di giorno ma fredde di notte: gli alberi stressati producono così sempre meno linfa.
Purtroppo, l’elenco dei cibi a rischio è destinato ad allungarsi. Ovviamente, maggiormente a repentaglio sono quelli per la cui produzione è necessaria più acqua. Interessante, a questo proposito, il lavoro del “Water Footprint Network”, sul cui sito si trova una galleria che misura l’impatto idrico di ogni alimento. Tra i peggiori, su questo fronte, c’è la carne bovina (15.415 litri per kg), quella di maiale (5.988 per Kg), il burro (5.553), il cioccolato (17.196). Ma la sicurezza alimentare è a rischio? Secondo una rielaborazione del Rapporto Ipcc sull’agricoltura e il suolo fatta dal Centro-Euro Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici (Cmcc), l’aumento delle temperature riduce la produttività dei raccolti ovunque e sta minacciando la sicurezza alimentare nelle zone aride del pianeta, in particolare in Africa, nelle regioni montuose dell’Asia e nel Sud America, dove risiede la metà delle popolazioni vulnerabili. Il cambiamento climatico, di conseguenza, avrà un impatto anche sui prezzi, che aumenteranno del 23% per il 2050. E se sa un lato una crescita contenuta della concentrazione di CO2 potrebbe migliorare la produttività di alcune colture, dall’altro diminuisce la qualità nutrizionale di alcuni alimenti (come il grano, che avrà meno proteine, zinco e ferro). Esistono, però, strategie di adattamento a questo quadro: la protezione delle foreste e la riduzione del degrado boschivo, ad esempio, è tra le azioni di mitigazione del clima più efficaci. Ma di ancor più facile adozione è, secondo gli esperti Ipcc-Cmcc, il cambio della dieta alimentare. Le indicazioni sono sempre le stesse: non sprecare cibo, ridurre drasticamente la carne, orientare la propria dieta su alimenti di origine vegetale e basso impatto ambientale.
Settembre 2019 Il Fatto Quotidiano
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