Aumento della desertificazione, drastica diminuzione della produzione agricola, diminuzione della qualità di alcune colture – come il grano – aumento dei prezzi del 23 per cento, maggiore rischio incendi, generale messa a repentaglio della sicurezza alimentare: questo è il quadro delle tendenze per i prossimi decenni che emerge dal “Rapporto speciale sui Cambiamenti Climatici, Desertificazione, Degrado del Suolo, Gestione Sostenibile del territorio, Sicurezza Alimentare e Flussi dei Gas a Effetto Serra negli Ecosistemi Terrestri” dell’Intergovernamental Panel on Climate Change (IPCC) l’organo scientifico dell’Onu che si occupa di cambiamenti climatici). Il Rapporto, presentato ieri a Ginevra in conferenza stampa mondiale e destinato ai “policy maker”, legislatori e politici, è stato stilato da 107 scienziati, il 53% dei quali provenienti dai paesi in via di sviluppo – quelli che subiranno i peggiori effetti del cambiamento climatici, ma anche il Mediterraneo è coinvolto – e basato su più di 7.000 paper scientifici. Il circolo vizioso è sempre lo stesso: su un problema di ipersfruttamento del territorio da parte dell’uomo – ben 70% quello che ha subito impatti, con un aumento della superficie sfruttata dagli anni Sessanta pari a 5,3 chilometri quadrati, la superficie dell’Europa continentale – si sommano gli effetti devastanti dei cambiamenti climatici: aumento dell’intensità dei fenomeni atmosferici, inondazione, aumento delle ondate di calore e della siccità, innalzamento del livello del mare, una nuova distribuzione di parassiti e patologie. “Il ruolo del settore agroforestale in questo quadro è fondamentale”, spiega Lucia Perugini, ricercatrice Centro-Euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici (CMCC) ed esperta in settore agroforestale e cambiamenti climatici. “Da un lato rappresenta una soluzione, poiché assorbe C02, dall’altro rappresenta un problema, nella misura in cui la deforestazione, l’uso di fertilizzanti e soprattutto gli allevamenti creano emissioni, per il 23%”.
Eppure le soluzioni ci sarebbero, alcune delle quali a portata di mano: in primo luogo, e il Rapporto parla chiaro, pur nel rispetto delle diverse culture ed esigenze alimentari dei paesi, una drastica riduzione di carne e latticini, visto che la filiera alimentare contribuisce al 25-30% delle emissioni e soprattutto a causa della produzione zootecnica. “Una transizione verso diete più sane”, spiega Perugini, “porterebbe a una riduzione delle emissioni pari a quelle generate dalla deforestazione mondiale. Viceversa se non riduciamo il consumo di carne, e mi riferisco soprattutto a paesi come gli Stati Uniti, non riusciremo mai a contenere l’aumento della temperatura”. Ma anche l’eliminazione dello spreco alimentare equivarrebbe al taglio del 10 per cento delle emissioni. Altre misure possibili sono l’attuazione di gestioni agricole a basse emissioni che aumentino l’assorbimento del carbonio dei suoli, come l’agricoltura biologica, la protezione degli ecosistemi terrestri come le foreste, ma anche azioni di rimboschimento associati a misure di protezione dagli incendi, una delle misure con potenziale di mitigazione delle emissioni più elevato. Un punto delicato e controverso del rapporto riguarda del rimboschimento ai fini della produzione di bioenergia. “La coperta è corta, o usi la terra per fare cibo o per fare energia, che andrebbe prodotta senza intaccare le esigenze alimentari”, spiega Riccardo Valentini, scienziato del CMCC e unico italiano autore del Rapporto IPCC. “Tuttavia il rapporto spiega che la terra, da un lato minacciata, può essere anche una soluzione. Ovviamente dobbiamo cambiare paradigma, non è possibile che nel mondo abbiamo persone che muoiono di fame ma anche 1,4 miliardi di obesi che muoiono per patologie. E poi bisogna cominciare a pensare che quello che mettiamo nel piatto è diretto responsabile delle crisi climatiche, basti pensare alla carne rossa. Purtroppo gli stili di vita sono radicati, ecco perché la nostra speranza di cambiamento sta nelle giovani generazioni”.
Agosto 2019, Il Fatto Quotidiano
Foto Dina Nasyrova