In sei mesi Greta ha fatto quello che noi scienziati non abbiamo fatto in 30 anni”. Era maggio quando Antonello Pasini, fisico e ricercatore del Cnr, ringraziava apertamente la giovane svedese per aver dato voce all’allarme e persino alla costernazione di centinaia di scienziati che da decenni documentano il cambiamento climatico e allertano inascoltati sulle sue devastanti conseguenze. Eppure fino a quel 20 agosto del 2018, giorno in cui una sconosciuta Greta Thunberg per la prima si è seduta con il suo cartello di legno e la celebre scritta “#climatestrike” sotto il Parlamento svedese, il riscaldamento globale era tema di élite: se ne occupava All Gore con la sua Fondazione Climate Reality, pochi gruppi ambientalisti più o meno radicali. Per dare un’idea del cambiamento, a giugno scorso – secondo una ricerca Ipsos su un campione di ragazzi dai 18 ai 24 anni – l’84% dei ragazzi italiani si è detto convinto senza interventi radicali “si va incontro a un disastro ambientale”. La ricerca ha spiegato anche come un 14-15enne su quattro ha aderito ai “FridaysforFuture, un movimento spontaneo nato dai messaggi di Greta Thunberg e che si è formato attraverso un tam tam inarrestabile in tutte le città del mondo, arrivando a portare in piazza – per lo sciopero globale sul clima del 5 marzo scorso – 1.800.000 persone (450.000 solo in Italia). L’ultimo incontro di questo movimento connesso tramite i social network – che si definisce fortemente “politico ma totalmente apartitico” e in cui non esistono distinzioni di nazioni perché ha capito che il cambiamento globale non conosce frontiere – si è svolto a Losanna, proprio in agosto. Dove i 450 ragazzi di quasi 40 paesi, che si preparano alla “Week for future” dal 20 al 27 settembre in occasione del summit Onu sul clima, hanno convenuto su tre obiettivi: garantire giustizie ed equità climatiche, mantenere il riscaldamento globale entro 1,4 gradi, ascoltare la scienza.
Ma per capire perché questa sedicenne di un ricco paese del nord Europa, sulle cui spalle oggi si appoggiano in tanti, compreso il Segretario generale dell’Onu Antonio Guterres che sta implorando i paesi di assumere misure più ambiziose di quelle stabilite nell’accordo di Parigi del 2015, bisogna analizzare non solo la sua storia familiare, ma anche la sua psicologia e il suo lessico. Della sua infanzia si sa molto, perché in parte è stata lei a raccontarla: a 8 anni capisce cosa sia il riscaldamento globale, a 11 soffre di una depressione dovuta a diversi fattori, poi si apre con i genitori che iniziano a supportarla e condividere le sue scelte, come non mangiare proteine animali smettere di volare. Non è chiaro perché Greta abbia sentito il bisogno di definirsi, sui suoi seguitissimi social network (800.000 persone su Twitter oltre 1 milione su Facebook), come “una sedicenne con l’Asperger”. Nel libro scritto in parte dalla madre “La mia casa in fiamme” (Mondadori) ciò che emerge non è tanto l’immagine di una ragazzina disturbata quanto quella di un sistema sanitario, quello svedese, troppo rapido nell’assegnare etichette patologiche ai suoi adolescenti e di genitori troppo zelanti nel richiederle, forse per mettere a tacere l’ansia, come nel caso della madre di Greta. Ad ogni modo, come nel caso di migliaia di altri leader morali prima di lei, un lieve disturbo, o meglio una sensibilità più esacerbata, produce in Greta una modo di pensare lineare, radicale, senza sbavature che ti inchioda al punto. Che è soprattutto uno, sui cui Greta ritorna e ritorna, ma l’unico che conta davvero: l’aumento dei gas serra nell’atmosfera e il conseguente aumento delle temperature. Perché, come ha detto, “sono trent’anni che parliamo di energia verde, solare, eolico, ma le emissioni stanno aumentando”. Per conoscerla basta ascoltare uno dei suoi celebri discorsi, senza mediazioni o traduzioni. In un ted di agosto ha accusato in primo luogo i media, “perché la gente non è cattiva, non è informata”: se credessero che ciò che la scienza dice non si parlerebbe di crisi climatica e invece nulla. Al World Economic Forum di Davos ha scandito: “Non è tempo di parlare gentilmente, è tempo di parlare chiaramente. Non è vero che esistono i grigi: o conteniamo le emissioni oppure no, o andiamo avanti come civiltà oppure no. Non voglio che abbiate speranza, ma che siate in panico e agiate”. A marzo, a Strasburgo, dove ha pianto per l’estinzione senza fine delle specie animali, ha detto che se la nostra casa stesse collassando “non si parlerebbe di brexir ma di crisi climatica” e ha parlato di Notre Dame: “È stata ricostruita perché lo si è voluto, ma la nostra casa è in fiamme e nessuno fa nulla”.
Il resto è stato un susseguirsi di riconoscimenti: eletta donna dell’anno in Svezia l’8 marzo, entrata nelle 100 persone più influenti dell’anno per il Time ad parile, premiata a giugno con il riconoscimento di Amnesty International (insieme ai Fridays) come “Ambasciatore di coscienza”, ricevuta dal Papa e dai potenti della Terra, candidata al Nobel per la pace. Puntuali, ovviamente, sono arrivate le critiche: di essere manipolata dall’alto, di puntare ai soldi, di creare panico ingiustificato e altre talmente miserabili da non essere neanche citabili. Nulla che la abbia scalfita più di tanto, anche perché – purtroppo – i fatti stanno parlando per lei, nell’estate in cui i ghiacciaio collassano e l’Artico va a fuoco, con il rischio di innescare una catena di eventi senza precedenti. E infatti se oggi le chiedeste se è felice risponderebbe di no, perché “le emissioni stanno aumentando”. “La verità è che sappiamo cosa accadrà, di quanto si alzeranno le temperature e questo è terribile. L’unica cosa che possiamo fare è agire”. Qualcuno più autorevole dei “critici” italiani si è chiesto se la radicalità di Greta sia compatibile con la democrazia. Lei risponderebbe, e non potrebbe essere altrimenti, che “la biosfera se ne frega delle nostre parole”. E non è stata lei, né quei giovani a cui oggi è impedito persino di votare, a causare una situazione così grave per cui non c’è più tempo per discutere. E poi Greta Thunberg ha sempre rivendicato un unico ruolo, quello di allertare le coscienze. “Non ci siederemo mai al tavolo con i politici, vogliamo che i politici si siedano al tavolo con gli scienziati”. Bello dunque il paragone che ha fatto il filosofo : Slavoj Zizek: “Come Antigone che va da Creonte e gli dice ‘voglio seppellire mio fratello e non si discute’ è irremovibile. Bisogna essere radicali”.
Agosto 2019, Il Fatto Quotidiano
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