Quando ho saputo che sarebbe uscito un film su Greta Thunberg ho temuto che sarebbe stato un prodotto agiografico, retorico; oppure adagiato piattamente su stereotipi e cliché del mondo dell’attivismo climatico o ancora, infine, un film “gridato” sull’emergenza climatica. Invece I’m Greta, il lungo documentario del regista Nathan Grossman, in uscita in questi giorni, non è niente di tutto questo. È un film dai toni bassi, girato con lentezza, accompagnato da una musica tanto bella quanto nostalgica, lontanissima da trionfalismi o celebrazione.
Il perché di una tale scelta è presto spiegato. Il film, che racconta un anno della vita di Greta dal primo sciopero per il clima nell’agosto 2018 davanti al parlamento svedese fino all’arrivo al summit Onu di New York nel settembre 2019, non opta per una narrazione della giovane attivista “dall’esterno”, semmai il contrario: ciò che vediamo è il mondo dagli occhi della stessa Greta.
Un punto di vista completamente soggettivo che è in grado così di spiegare i sentimenti che Greta Thunberg ha provato nel corso di quell’anno, restituendocela nella forma più concreta e vicina possibile. Non a caso il film si sofferma spesso su momenti della vita privata, mostrandone l’attaccamento e al tempo stesso, così, la fatica e anche il dolore che Greta ha provato nel lasciare la sua “zona di conforto”; così ben rappresentata dalla scena, che spesso ricorre, in cui lei spazzola i suoi cani.
E proprio perché il film documenta la vita di Greta attraverso i suoi occhi, anche il crescendo di riconoscimenti e premi non viene narrato in maniera impetuosa, né utilizzando un eccesso di pathos che pure sarebbe stato facile mettere. Tutto si svolge come nella vita vera: lentamente, con una progressione non sempre lineare, ma soprattutto in maniera segnata da emozioni contrastanti e dubbi: sul cosa fare nel momento in cui riceve un invito, sulla decisione rispetto alla scuola, sulla scelta drastica di viaggiare con una barca per arrivare a New York.
Greta viene mostrata, ripeto, per come è: ragazzina piccola, perché tale è, non a caso il padre, figura centrale, l’accompagna passo passo; spesso sconfortata, spesso triste, disperata quando si tratta di lasciare i suoi familiari per la traversata (e anche i cani, infatti dice “Con mamma e Beata – la sorella, ndr – posso parlare su zoom, con i miei cani no!”).
Ma il documentario mostra anche, correttamente, la progressione psicologica di Greta, che mano mano acquisisce sicurezza, tanto che può permettersi di sorridere di fronte a critiche violente da parte di uomini di potere come Bolsonaro, oppure decidere che deve andare avanti anche se riceve lettere minacce di morte.
Insomma vedere questo film è importante, perché sottrae Greta Thunberg alla retorica su Greta Thunberg, perché rende impossibile criticarla in maniera stereotipata, perché mostra con chiarezza la fatica immane di portare avanti un compito molto pesante che Greta, altro che smania di visibilità, patisce apertamente.
Anche il capitolo sul suo viaggio in barca dovrebbe essere visto da quelli che l’hanno accusata di viaggiare con il catamarano chic di Casiraghi: la barca è piccolissima, la traversata realmente rischiosa, tanto che la prima cosa che riceve Greta è un gps portatile da tenere addosso perché in caso di caduta in acqua c’è il rischio concreto di non ritrovarla più.
Ma forse per questo, il momento più toccante è proprio quando il catamarano raggiunge le coste statunitensi all’alba e si vedono sul molo migliaia di persone che accolgono Greta, tantissimi bambini e bambine, donne, famiglie. Quelle che sempre più si raccolgono per protestare contro la gli effetti del cambiamento climatico.
Il film si chiude con il discorso più forte che Greta abbiamo mai pronunciato: quello davanti al summit Onu e ai capi di stato di tutto il mondo. L’attacco è fortissimo: “È tutto sbagliato, è tutto sbagliato. Io non dovrei stare qui, io dovrei stare dall’altra parte dell’oceano a scuola”. E prosegue accusando con inaudita forza tutti i governi, e raccontando degli “ecosistemi che collassano, dei milioni di persone che stanno soffrendo”.
Mai come in questo film il mezzo è il messaggio: non c’è bisogno di parlare troppo della crisi climatica in maniera scientifica e asettica. Raccontando Greta si racconta anche del clima e lo si fa in maniera diversa, una maniera che usa i sentimenti, oltre che le ragioni, o meglio le ragioni espresse attraverso la passione. Per questo è un film che dovrebbero vedere tutti, gli apologeti come i critici di Greta. Ma ancor più cruciale sarebbe che lo vedessero tutti i ragazzi delle scuole, dalle elementari alle superiori e si spera davvero che possa arrivare a circolare lì.
Perché il documentario Nathan Grossman aiuta a capire mentre coinvolge, aiuta a comprendere i fatti attraverso il corpo e la voce di una ragazzina uguale a tutti gli altri. Che avrebbe voglia soprattutto di stare a casa a prendersi cura dei suoi cani, invece che gridare ai potenti della terra la loro inettitudine e le loro responsabilità verso un pianeta devastato. Un pianeta che spetterebbe a chi ha davvero il potere di curare, non a sedicenni che non hanno ancora neanche il diritto di votare.
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