Intervista a Giorgio Vacchiano
Assorbono le nostre emissioni, ci danno acqua, cibo e ristoro spirituale. Eppure le foreste, in epoca di cambiamento climatico, sono sottoposte a fortissimi stress e dunque sono anch’esse a rischio. Molto però si può fare, come spiega Giorgio Vacchiano, docente di Gestione e pianificazione forestale alla Statale di Milano e autore di La resilienza del bosco. Storie di foreste che cambiano il pianeta (Monadori). “Non solo i boschi mettono in atto strategie di resilienza e resistenza proprie, ma anche noi possiamo aiutarle ad adattarsi meglio, prevenendo mortalità, incendi e parassiti”.
Professore, perché senza boschi non potremmo vivere?
Le foreste ci danno il necessario per la sopravvivenza: un miliardo e mezzo di persone dipendono da loro per avere acqua e ottocento milioni per l’approvvigionamento diretto di cibo. Inoltre, in un’epoca di cambiamento climatico, gli alberi assorbono un terzo delle nostre emissioni. Infine, grazie alle foreste integre le popolazioni non sono in contatto con gli animali e si abbassa la possibilità dello spillover, il salto del virus da uomo e animale.
Qual è lo stato delle nostre foreste?
Ci sono due tendenze contrastanti. Da un lato c’è un aumento della superficie forestale spontaneo nei terreni abbandonati dall’agricoltura o nelle zone marginali non più economicamente utilizzate. Parliamo di 50.000 ettari ogni anno in Italia e 800.000 in Europa. Tuttavia, non sempre si tratta di una notizia positiva, perché è un fenomeno che andrebbe governato altrimenti si rischia, ad esempio, un aumento degli incendi. C’è però un altro lato oscuro.
Quale?
Molto spesso all’aumento delle nostre foreste corrisponde un aumento della delocalizzazione degli impatti, perché di terra e legna abbiamo bisogno. E così invece di deforestare a casa nostra, come si faceva fino al 1700, importiamo legno dal Sudamerica o dall’Indonesia, dove aumenta il prelievo e la conversione della foresta ad usi agricoli per produrre prodotti che servono ai paesi occidentali. Il fatto è che oggi è tutto legato e quindi se scompaiono le foreste in Sud America comunque noi ci andiamo di mezzo.
Come incide il cambiamento climatico sulle nostre foreste?
Nel mio libro parlo dei meccanismi incredibili di risposta e adattamento degli alberi a questi eventi estremi: il problema è se il numero e l’intensità di questi eventi cambiano troppo rapidamente, anche se dipende molto dai vari ecosistemi e dal tipo
di foreste. Prendiamo gli incendi in Australia: ci sono sempre stati, ma bisogna vedere con che intensità e con che frequenza. Se prima una certa zona bruciava ogni cento anni le piante avevano il tempo di ricolonizzare ,se accade ogni venti si può superare la capacità di resilienza delle piante, rischiando un cambiamento di escosistema fatto di arbusti ed erbe. Un altro esempio: nel 2018 c’è stata una delle peggiori siccità degli ultimi due secoli in Europa centrale e ci sono state ampie zone di mortalità degli alberi a causa della siccità.
Esiste quindi “un punto di non ritorno” per i boschi?
Esistono vari studi sui cosiddetti “tipping point” per quanto riguarda la foreste tropicali. E non parliamo solo delle giungle piovose, ma anche delle foreste tropicali aride, dove basta una piccola differenza nella quantità di piogge per mandare in crisi l’ecosistema. Ma anche le foreste dell’Amazzonia sono un ecosistema fragile, perché il suolo è povero di sostanze nutritive e l’equilibrio si regge su un ciclo chiuso di materia organica prodotta dagli alberi stessi. Gli alberi sono enormi pompe d’acqua a ciclo chiuso che “sparano” il vapore in atmosfera in modo da formare la pioggia. Se questo ciclo viene disturbato, eliminando definitivamente anche solo un quarto dell’area disboscata, verrebbe a mancare l’acqua in atmosfera necessaria per formare la pioggia e la foreste potrebbe trasformarsi in savana.
Ma quali sono le capacità di reazione dei boschi?
Sono tantissime. Gli alberi sono cresciuti da sempre in un mondo che proponeva loro degli stress enormi, il fuoco è esistito sulla terra da quando ci sono gli alberi. Le piante hanno sempre convissuto con le fiamme, sviluppando strategie di resilienza, come la corteccia della quercia che è isolante. Nel libro racconto dei pini la cui pianta adulta muore, ma le cui pigne si aprono per il calore e spargono semi. Ma anche un castagno tagliato ricresce dal ceppo. Insomma nei modi di riprodursi gli alberi sono maestri molto più di noi, sanno ricrescere da una singola gemma.
Si fa molta retorica sulla “riforestazione” e sulla necessità di piantare alberi. È una cosa che serve?
È una cosa necessaria ma non sufficiente. Non basta piantare nuovi alberi, se voglio che l’albero agisca, cioè assorba carbonio, devo curarlo nei primi anni in cui è più fragile. Inoltre piantare monoculture in un ambiente di foresta mista biodiversa potrebbe essere negativo, come negativa potrebbe la piantumazione di alberi nelle zone polari perché rendendo più scuro il paesaggio potrebbero avere un effetto di riscaldamento. Pensi che ci sono in corso ricerche sulle modifiche genetiche, ad esempio della soia, che potrebbero schiarire le piante.
Come si gestiscono i boschi?
Sono scelte non facili, perché non sempre le cose che si devono fare sono omogenee,
anzi ci possono essere obiettivi che richiedono strategie discordanti. Ad esempio la conservazione della biodiversità rispetto alla produzione di legno su scala industriale. Io penso che il segreto per armonizzare queste funzione sia la pianificazione: si prende come riferimento una regione, una vallata o un comune e si decide quali foreste ti devono dare che cosa, tenendo conto che quando prendi lo devi fare a un rimo più lento della velocità di ricrescita e tenendo conto del cambiamento climatico. Ma come dicevo, oggi è quanto mai necessario avere uno sguardo globale, perché qualsiasi cosa facciamo ha delle conseguenze altrove. Se conserviamo troppo qui vuole dire che prendiamo troppo altrove, ma occorre evitare la sindrome “nimby” (not in my back yard).
Come scrive nel suo libro, in molti casi anche tagliare è utile e anche praticare incendi mirati.
A volte tagliare alcuni alberi significa fare la differenza e impedire a tutti di morire, il diradamento è una forma praticata di adattamento. Si usa come prevenzione dalla siccità oppure per prevenire attacchi di insetti. L’assorbimento delle emissioni delle piante, ripeto, dipende anche dalla salute delle piante. Anche per la protezione del dissesto può essere necessario intervenire quando la foresta attraversa fasi meno adatte a stabilizzare il suolo o trattenere massi e valanghe e anche qui, come dicevo prima, le strategie possono essere diverse. La Svizzera ha fatto enormi investimenti sulla manutenzione delle foreste, che se lasciate a se stesse potrebbero non essere compatibili con la protezione del dissesto.
Come l’Italia sta proteggendo i boschi e quanti fondi servirebbero?
A Giugno si è conclusa la consultazione pubblica della nuova Strategia Forestale Nazionale, il documento che sarà alla base della gestione forestale per i prossimi vent’anni nel nostro Paese. La Strategia contiene molte novità interessanti, incoraggiando la mappatura di tutte le foreste che ci proteggono dal dissesto e delle foreste “vetuste” a più alto contenuto di biodiversità, il ripristino dei boschi degradati o colpiti da eventi estremi, gli interventi di prevenzione antincendi boschivi e per l’aumento della resistenza delle foreste alle tempeste, incentivando l’acquisto da filiere corte e di prodotti legnosi certificati, prevedendo programmi formativi per tutti gli operatori boschivi, e chiedendo a chi redige i piani forestali di effettuare una analisi puntuale delle vulnerabilità climatiche e di progettare interventi di mitigazione e adattamento. Per ogni azione, la strategia indica a quali risorse si potrebbe attingere per realizzarla, nella speranza che questi “suggerimenti” servano per “indirizzare” al meglio la tipologia di interventi ammessi a ricevere finanziamenti dai fondi pubblici comunitari e nazionali.
Parliamo del verde urbano. Le foreste urbane sono il nostro futuro? Ma come mantenere ciò che abbiamo?
Le foreste urbane hanno senso e non solo per assorbire carbonio. Le città sono luoghi dove gli impatti del calore sono più forti, dove si sfogano gli eventi metereologici estremi perché il suolo è impermeabile, dove gli effetti dell’inquinamento sono massici. Gli alberi possono fare tanto, per prevenire i danni da alluvione, assorbire il particolato che genera infezioni respiratorie e rinfrescare le temperature. Molte città sono partite con piani di riforestazione, non solo Milano, ma anche Napoli. Nel decreto clima di sono 30 milioni da spendere su questo fronte, poi sono tantissime anche le iniziative dal basso. Noi abbiamo lanciato la fondazione Alberitalia.it, https://www.alberitalia.it per dare consulenza scientifica a chiunque abbia progetti di impianto, per capire come e dove ripiantumare.
Quali comportamenti singoli aiuterebbero?
Il primo problema è quello della deforestazione dei paesi tropicali con perdita della biodiversità ed effetti sul clima, quindi il primo punto è non importare, né mangiare, prodotti responsabili di questo fenomeno. Nel Green Deal ci saranno strategie per mettere un freno all’importazione di questi prodotti. Sul legno già oggi i consumatori possono cercare il bollino di gestione sostenibile.
Quanto la preoccupa personalmente il cambiamento climatico?
Io vedo tantissime soluzioni a portata di mano e non mi riferisco solo alle foreste ma soprattutto ai trend incoraggianti sull’energia rinnovabile, sulla decarbonizzazione dei trasporti e sull’economia circolare. Molte aziende ormai hanno capito che la conservazione del capitale naturale è parte integrante del loro business, e non un accessorio a cui dedicare rimasugli di bilancio o azioni di CSR di mera facciata. Se poi dovesse arrivare, come credo, una tassa sul carbonio le cose miglioreranno ulteriormente, ma già oggi è tecnicamente possibile una alimentazione energetica al 100% da fonti rinnovabili, anche in Italia (www.thesolutionsproject.org) . Arrivarci non è più tanto una questione di convenienza economica quanto di volontà politica. E il grande movimento popolare dei giovani per la lotta al cambiamento climatico potrebbe fornire la spinta che finora è mancata.
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