Da oltre diciassette anni lavora con Amref, una Ong con una lunga storia alle spalle che si occupa di salute nel continente africano. Roberta Rughetti è la direttrice dei programmi per il l’Italia e al Fatto Quotidiano racconta come salute, ambiente e clima siano strettamente legate nei progetti portati avanti dall’organizzazione e di come il cambiamento climatico stia purtroppo mettendo a rischio progetti e obiettivi faticosamente raggiunti. Proprio sul tema del cambiamento climatico in Africa, Amref, in collaborazione con DocLab, ha lanciato una campagna, basata su un cortometraggio con la partecipazione di Fiorella Mannoia, dal titolo Qualcosa si è rotto. Per spiegare che l’equilibrio del continente è ormai spezzato da continui periodi di siccità alternati a forti inondazioni, che causano milioni di sfollati.

Come impattano i cambiamenti climatici in Africa?

Purtroppo negli ultimi dieci anni abbiamo avuto a che fare con problemi di siccità prolungata e ricorrente che ha colpito molti paesi, ad esempio il corno d’africa (Etiopia, Kenya, Sud Sudan) e questo rischia di compromettere i percorsi virtuosi che si avviano con programmi di lungo periodo, che perché i paesi africani sono molto vulnerabili rispetto al clima. Addirittura, sei dei paesi più vulnerabili nei venti del mondo si trovano in Africa. I dati del 2019 non sono incoraggianti, perché oltre a otto milioni di sfollati a causa del clima si registrano tre milioni di profughi del clima.

C’è anche un rischio di insicurezza alimentare?

L’assenza di piogge o le piogge torrenziali si trasformano in insicurezza alimentare e rischiano di compromettere gli sforzi che vengono fatti. L’aumento di intensità delle ondate di calore, le precipitazioni violenti, gli alluvioni e gli uragani mettono in difficoltà le infrastrutture, spesso non preparate a questo cambiamento. A questo si collegano i problemi ricorrenti legati all’accesso all’acqua potabile che è ancora un problema nelle zone in cui lavoriamo, nonostante i miglioramenti ancora il venti per cento della popolazione dell’Africa sub sahariana non ha accesso a servizi idrici e igienici sicuri. Questo comporta una serie di malattie infettive gravi. Quello che noi facciamo comunque è trasformare la creazione di servizi igienici e sanitari anche in opportunità di reddito per le persone, attraverso programmi di formazione e sensibilizzazione su questi temi, specie dei ragazzi più giovani. Noi non ci improvvisiamo esperti di clima, ma alleniamo la capacità delle comunità a rispondere alle crisi economiche, sociali e ambientali, tra loro intrecciate.

In questi anni voi Ong siete state spesso vittime di critiche o veri attacchi. 

Purtroppo c’è una narrazione, anche mediatica, che ha assimilato in maniera superficiale il tema della cooperazione internazionale. Non si conosce ciò che facciamo, ovvero investimenti a lungo termine che non implicano solo risorse ma anche ma anche la conoscenza del contesto, il dialogo, il confronto. Un lavoro complesso. Spesso nell’ambito della cooperazione internazionale le premesse istituzionali, collegate a una quota specifica del Pil, sono disattese anche dagli Stati. Per fortuna riscontriamo la totale fiducia dei nostri donatori. Ma a proposito di immigrazione le racconto una cosa.

Prego.

Il nord Uganda, dove siamo intervenuti in una situazione di guerra civile e totale assenza di servizi, oggi accoglie, con il nostro supporto, i sud sudanesi che lasciano il paese. Gli ugandesi di oggi, che hanno case e servizi ma un reddito e un Pil ben diverso dai nostri, accolgono i profughi, assegnando loro appezzamenti di terra, facendo accedere i bambini ai servizi educativi. La maggior parte delle migrazioni avviene dentro il continente, e questo non si dice.

Perché allora ci sono così tanti stereotipi sul continente africano, a partire dal fatto che la popolazione sia passiva e sempre bisognosa?

Noi siamo un’organizzazione che agisce attraverso il personale africano e vediamo tutti i giorni come le risorse umane sono parte della soluzione del problema, ci sono competenze ed eccellenze tecniche locali, ad esempio ingegneristiche per l’accesso all’acqua o mediche per i programmi sanitari, a cui si aggiunge la conoscenza del luogo, che è un elemento imprescindibile.

Un altro cliché è quello sugli africani che fanno troppi figli.

Purtroppo la verità è che mettere al mondo un figlio in Africa è un rischio, la possibilità che muoia entro i cinque anni è concreta e questo rappresenta un condizionamento. Poi nella spinta a procreare intervengono condizionamenti familiari, sociali e culturali sui quali bisogna investire per far capire alle donne che l’allungamento dello spazio tra gravidanze è anche un’opportunità. Nel promuovere i programmi di salute riproduttiva mettiamo insieme anche le confessioni che sono presenti in quei territori perché la religione ricopre un ruolo importante. l’aspettativa di vita è totalmente diversa. Io ho 46 anni e in un paese africano sarei prossima al declino.

Quali sono i vostri progetti e cosa li lega?

Come Amref siamo impegnati con 172 progetti legati prevalentemente alla promozione sanitaria in 26 paesi africani. Siamo nati in Kenya e qui lavoriamo, così come in tutta l’Africa orientale (Etiopia, Uganda, Tanzania), ma ci occupiamo anche di paesi afflitti da crisi come il sud Sudan oppure il nord dell’Uganda. Ma siamo presenti anche in Africa occidentale, in paesi come Zambia, Malawi, Senegal, lavorando a fianco dei governi e dei ministeri della Salute e le comunità, con l’obiettivo di raggiungere le popolazioni più remote. Con un filo rosso costante: il coinvolgimento delle realtà locali, l’identificazione dei bisogni e la formulazione della risposta a quei bisogni perché i progetti siano efficaci. Non basta trivellare per cercare acqua, occorre rendere le comunità attive e intenzionate a proteggere quell’investimento, come non serve costruire un reparto di ostetricia se non si rendono le donne consapevoli dell’importanza del parto medicalmente assistito. Il nostro lavoro è multisettoriale, sociale, ambiente e salute sono legati. E laddove possibile utilizziamo le radio, oppure gli smartphone, attraverso app per veicolare in modo capillare ed efficace messaggi sia di formazione agli operatori sanitari che di divulgazione per le popolazioni locali.

Un ruolo cruciale è giocato dalle donne.

Assolutamente sì. Come Amref ci siamo resi conto che nell’ambito della resilienza e della capacità delle comunità di rispondere alle crisi ambientali, sociali e economiche un ruolo fondamentale lo ricopre la donna. Che è quella che si fa carico della cura della famiglia, cammina ore in cerca di acqua, etc. Sono fondamentali l’empowermenteconomico, la partecipazione ai processi decisionali nella famiglia, la conoscenza dei diritti legati alla sessualità e alla riproduzione.

Perché il covid-19 è un enorme problema in Africa? 

Ci sono quasi ottocentomila casi, ma ciò che ci preoccupa – in Kenya ad esempio si parla di scuole chiuse per il 2020 – è l’interruzione della possibilità di andare a scuole per molte ragazze dai 12 ai 17 anni perché rischia di esporle a matrimoni precoci. Per questo stiamo cercando di monitorare questi aspetti, cercando di potenziare il dialogo tra scuole e famiglie. Non si può trascurare il tema della pandemia nel continente africano perché, anche se ci sono meno contagi, la sproporzione tra malattie e risorse mediche è ingente. In Nigeria, il paese più popoloso dell’Africa, l’aspettativa di vita è di 53 anni.

Dal suo punto di vista di osservatrice di una realtà di cui non si parla, cosa chiederebbe ai nostri politici? 

L’impegno preso nei confronti della cooperazione internazionale va mantenuto ed è necessario per ridurre le diseguaglianze sanitarie e anticipare e mitigare i pericoli derivanti da possibili future pandemie. Occuparci della salute nei paesi più poveri del mondo, portare servizi sanitari di base nelle aree più remote dell’Africa (continente che sopporta oltre il 24% del carico globale delle malattie con il supporto del 3% del personale medico mondiale) è riconoscere che la salute dei paesi è interconnessa e che in quelli paesi più fragili e più remoti non rappresenta una risposta locale e circoscritta, bensì l’affermazione di un bene essenziale e globale.

Purtroppo negli ultimi dieci anni abbiamo avuto a che fare con problemi di siccità prolungata e ricorrente che ha colpito molti paesi, ad esempio il corno d’africa (Etiopia, Kenya, Sud Sudan) e questo rischia di compromettere i percorsi virtuosi che si avviano con programmi di lungo periodo, che perché i paesi africani sono molto vulnerabili rispetto al clima. Addirittura, sei dei paesi più vulnerabili nei venti del mondo si trovano in Africa. I dati del 2019 non sono incoraggianti, perché oltre a otto milioni di sfollati a causa del clima si registrano tre milioni di profughi del clima.

C’è anche un rischio di insicurezza alimentare?

L’assenza di piogge o le piogge torrenziali si trasformano in insicurezza alimentare e rischiano di compromettere gli sforzi che vengono fatti. L’aumento di intensità delle ondate di calore, le precipitazioni violenti, gli alluvioni e gli uragani mettono in difficoltà le infrastrutture, spesso non preparate a questo cambiamento. A questo si collegano i problemi ricorrenti legati all’accesso all’acqua potabile che è ancora un problema nelle zone in cui lavoriamo, nonostante i miglioramenti ancora il venti per cento della popolazione dell’Africa sub sahariana non ha accesso a servizi idrici e igienici sicuri. Questo comporta una serie di malattie infettive gravi. Quello che noi facciamo comunque è trasformare la creazione di servizi igienici e sanitari anche in opportunità di reddito per le persone, attraverso programmi di formazione e sensibilizzazione su questi temi, specie dei ragazzi più giovani. Noi non ci improvvisiamo esperti di clima, ma alleniamo la capacità delle comunità a rispondere alle crisi economiche, sociali e ambientali, tra loro intrecciate.

In questi anni voi Ong siete state spesso vittime di critiche o veri attacchi. 

Purtroppo c’è una narrazione, anche mediatica, che ha assimilato in maniera superficiale il tema della cooperazione internazionale. Non si conosce ciò che facciamo, ovvero investimenti a lungo termine che non implicano solo risorse ma anche ma anche la conoscenza del contesto, il dialogo, il confronto. Un lavoro complesso. Spesso nell’ambito della cooperazione internazionale le premesse istituzionali, collegate a una quota specifica del Pil, sono disattese anche dagli Stati. Per fortuna riscontriamo la totale fiducia dei nostri donatori. Ma a proposito di immigrazione le racconto una cosa.

Prego.

Il nord Uganda, dove siamo intervenuti in una situazione di guerra civile e totale assenza di servizi, oggi accoglie, con il nostro supporto, i sud sudanesi che lasciano il paese. Gli ugandesi di oggi, che hanno case e servizi ma un reddito e un Pil ben diverso dai nostri, accolgono i profughi, assegnando loro appezzamenti di terra, facendo accedere i bambini ai servizi educativi. La maggior parte delle migrazioni avviene dentro il continente, e questo non si dice.

Perché allora ci sono così tanti stereotipi sul continente africano, a partire dal fatto che la popolazione sia passiva e sempre bisognosa?

Noi siamo un’organizzazione che agisce attraverso il personale africano e vediamo tutti i giorni come le risorse umane sono parte della soluzione del problema, ci sono competenze ed eccellenze tecniche locali, ad esempio ingegneristiche per l’accesso all’acqua o mediche per i programmi sanitari, a cui si aggiunge la conoscenza del luogo, che è un elemento imprescindibile.

Un altro cliché è quello sugli africani che fanno troppi figli.

Purtroppo la verità è che mettere al mondo un figlio in Africa è un rischio, la possibilità che muoia entro i cinque anni è concreta e questo rappresenta un condizionamento. Poi nella spinta a procreare intervengono condizionamenti familiari, sociali e culturali sui quali bisogna investire per far capire alle donne che l’allungamento dello spazio tra gravidanze è anche un’opportunità. Nel promuovere i programmi di salute riproduttiva mettiamo insieme anche le confessioni che sono presenti in quei territori perché la religione ricopre un ruolo importante. l’aspettativa di vita è totalmente diversa. Io ho 46 anni e in un paese africano sarei prossima al declino.

Quali sono i vostri progetti e cosa li lega?

Come Amref siamo impegnati con 172 progetti legati prevalentemente alla promozione sanitaria in 26 paesi africani. Siamo nati in Kenya e qui lavoriamo, così come in tutta l’Africa orientale (Etiopia, Uganda, Tanzania), ma ci occupiamo anche di paesi afflitti da crisi come il sud Sudan oppure il nord dell’Uganda. Ma siamo presenti anche in Africa occidentale, in paesi come Zambia, Malawi, Senegal, lavorando a fianco dei governi e dei ministeri della Salute e le comunità, con l’obiettivo di raggiungere le popolazioni più remote. Con un filo rosso costante: il coinvolgimento delle realtà locali, l’identificazione dei bisogni e la formulazione della risposta a quei bisogni perché i progetti siano efficaci. Non basta trivellare per cercare acqua, occorre rendere le comunità attive e intenzionate a proteggere quell’investimento, come non serve costruire un reparto di ostetricia se non si rendono le donne consapevoli dell’importanza del parto medicalmente assistito. Il nostro lavoro è multisettoriale, sociale, ambiente e salute sono legati. E laddove possibile utilizziamo le radio, oppure gli smartphone, attraverso app per veicolare in modo capillare ed efficace messaggi sia di formazione agli operatori sanitari che di divulgazione per le popolazioni locali.

Un ruolo cruciale è giocato dalle donne.

Assolutamente sì. Come Amref ci siamo resi conto che nell’ambito della resilienza e della capacità delle comunità di rispondere alle crisi ambientali, sociali e economiche un ruolo fondamentale lo ricopre la donna. Che è quella che si fa carico della cura della famiglia, cammina ore in cerca di acqua, etc. Sono fondamentali l’empowermenteconomico, la partecipazione ai processi decisionali nella famiglia, la conoscenza dei diritti legati alla sessualità e alla riproduzione.

Perché il covid-19 è un enorme problema in Africa? 

Ci sono quasi ottocentomila casi, ma ciò che ci preoccupa – in Kenya ad esempio si parla di scuole chiuse per il 2020 – è l’interruzione della possibilità di andare a scuole per molte ragazze dai 12 ai 17 anni perché rischia di esporle a matrimoni precoci. Per questo stiamo cercando di monitorare questi aspetti, cercando di potenziare il dialogo tra scuole e famiglie. Non si può trascurare il tema della pandemia nel continente africano perché, anche se ci sono meno contagi, la sproporzione tra malattie e risorse mediche è ingente. In Nigeria, il paese più popoloso dell’Africa, l’aspettativa di vita è di 53 anni.

Dal suo punto di vista di osservatrice di una realtà di cui non si parla, cosa chiederebbe ai nostri politici? 

L’impegno preso nei confronti della cooperazione internazionale va mantenuto ed è necessario per ridurre le diseguaglianze sanitarie e anticipare e mitigare i pericoli derivanti da possibili future pandemie. Occuparci della salute nei paesi più poveri del mondo, portare servizi sanitari di base nelle aree più remote dell’Africa (continente che sopporta oltre il 24% del carico globale delle malattie con il supporto del 3% del personale medico mondiale) è riconoscere che la salute dei paesi è interconnessa e che in quelli paesi più fragili e più remoti non rappresenta una risposta locale e circoscritta, bensì l’affermazione di un bene essenziale e globale.

Pubblicato su Il Fatto quotidiano.it luglio 2020

Foto di ludi da Pixabay

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