Intervista a Massimo Clementi
Qual è il rapporto tra cambiamento climatico, inquinamento, deforestazione e virus? Come i nostri stili di vita stanno causando infezioni umane di origine animale che possono evolvere in epidemie o pandemie, ormai divenute cicliche? Ce lo spiega Massimo Clementi, che non è un climatologo o un ambientalista ma è professore di Microbiologia e Virologia all’Università Vita-Salute San Raffele di Milano e Direttore del Laboratorio di Microbiologia e Virologia dell’Ospedale San Raffaele. E proprio da poco è uscito il suo libro, scritto con la giornalista scientifica Eliana Liotta, dal titolo emblematico: La rivolta della natura (edizioni La nave di Teseo).
Professor Clementi, quanta consapevolezza c’è tra i virologi, e in genere nel mondo medico, del rapporto tra riscaldamento climatico e virus? Se ne parla abbastanza?
Sì, se ne parla da qualche anno in maniera molto più serrata di un tempo. Ad esempio, tempo fa con la Società italiana di virologia, insieme ad altri colleghi abbiamo organizzato a Milano un congresso che abbiamo chiamato One health, one virus, proprio per cercare di sottolineare il fatto che la virologia umana non è più sganciata dalla virologia animale e dall’ambiente. Anzi l’uomo diventa sempre più il terminale di infezioni che vengono dal mondo animale, spesso da specie selvagge. Questo è stato sempre più evidente negli anni: la mia ormai abbastanza lunga carriera professionale è divisa in due parti. Nella prima mi sono occupato di virus che sono sempre stati nell’uomo, come i virus erpetici o il virus dell’epatite B; poi ho visto l’HIV, un virus dell’uomo che ha origine però nei primati e nel continente africano. Infine, ora sempre più vedo nuove infezioni provenienti dal mondo animale. E questo mi preoccupa.
Anche l’Oms aveva predetto che ci sarebbe stata un’altra pandemia.
Sì ma era prevedibile: pensiamo solo ai coronavirus: abbiamo assistito nel giro di 17 anni a tre diverse epidemie. La Sars nel 2003-2004, la seconda, la Mers, in Arabia Saudita nel 2013-14, infine quest’ultima: le dimensioni sono state diverse in termini di numero complessivo dei soggetti infettati, però certamente abbiamo avuto una concentrazione di epidemie a mio avviso inusuale. E poi ci sono state altre infezioni, come quella da West-Nile Virus che è veicolato all’uomo dalla presenza della zanzara tigre, che non c’era in Italia ed è arrivata per il clima. Solo questa provoca 1.660 casi di encefalite in Europa ogni anno.
Può fare qualche esempio pratico di come il cambiamento climatico incide sulla salute, in termini di relazione ai virus?
Prendiamo ad esempio la deforestazione. Si è parlato tanto di pipistrelli negli ultimi tempi: il pipistrello è un mammifero che vola, ce ne sono tante specie e anzi forse non si sa che si tratta di una specie protetta e ha alcune caratteristiche biologiche uniche, ad esempio non si ammala di cancro. Inoltre ha un sistema immunitario particolare, albergano nel suo organismo oltre 70 specie di coronavirus, senza ammalarsi, è un animale serbatoio per questi agenti ma vive nel suo ambiente. Se andiamo a deforestare a togliere gli alberi dove alcuni pipistrelli si nutrono grazie a particolari frutti, se appunto distruggiamo i boschi per seminare soia o li incendiamo, li costringiamo ad emigrare e avvicinarsi ai centri abitati. Ci sono state epidemie portate dai pipistrelli, che hanno coinvolto l’uomo, passando per i cavalli. Ma la colpa è nostra, perché non rispettiamo un equilibrio che la natura deve mantenere. Non bisogna essere estremisti del clima per dire questo. La distruzione ambientale mette in contatto virus che vivono in habitat diversi con l’uomo e l’uomo si infetta.
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