È una delle voci femminili più autorevoli del mondo cattolico sui temi economici, ambientali e sociali: Alessandra Smerilli, professoressa ordinaria di Economia Politica presso l’Università Pontificia Auxilium di Roma, Consigliera dello Stato Città del Vaticano, membro della task force voluta dal ministero per le Pari opportunità e la Famiglia e infine membro della Commissione Covid-19 istituita da papa Francesco per immaginare il mondo dopo la pandemia. Al Fatto Quotidiano, l’economista vicina al pontefice spiega perché occorre puntare su un’etica che mutui la
resilienza e la capacità di cooperare delle piante, su un’economia che favorisca naturalmente la parte migliore degli individui, su una società in cui le diseguaglianze sociali e di genere siano appianate. “Perché non convengono a nessuno”.
Nel suo ultimo libro Donna economia (San Paolo edizioni), lei parla di diversi livelli di “negazione” del cambiamento climatico. Come mai secondo lei ci sono ancora persone, e governi, totalmente o parzialmente negazionisti, nonostante la quasi totalità degli scienziati converga sul fenomeno?
Ci sono diverse reazione rispetto a un evento che chiede di cambiare comportamenti individuali e collettivi, un po’ come è stato per la pandemia. Uno degli studiosi che più le ha analizzate è Albert Bandura, che ha scritto un libro dal titolo Disimpegno morale. Come facciamo del male continuando a vivere bene, in cui – anche in merito al cambiamento climatico – analizza i meccanismi psicologici di difesa che ognuno di noi mette in atto. Il primo è un meccanismo di vera e propria negazione, ad esempio Trump che vede la neve e dice che il cambiamento climatico non esiste. Il secondo livello è quello in cui si ammette che il cambiamento climatico esiste, ma lo si attribuisce a fenomeni indipendenti da noi come l’asse terrestre, infine il terzo è quello in cui si ammette che l’uomo sia responsabile ma al tempo stesso si pensa di non poter fare nulla rispetto al cambiamento.
Papa Francesco è forse il pontefice più ambientalista che la Chiesa abbia avuto. Eppure una parte di mondo cattolico ancora fatica a occuparsi di ambiente e soprattutto di cambiamento climatico. Forse a causa anche di un antropocentrismo molto radicato, forse per sospetto verso i neo-malthusiani. Cosa ne pensa?
È vero che l’enciclica Laudato Sii è stata recepita paradossalmente prima da ambienti non cattolici che cattolici, però è pur vero che ci sono tanti movimenti del nostro mondo che l’hanno ripresa, tanto che progressivamente è diventata una massa critica che sta portando grandi cambiamenti. Penso ad esempio alle linee guida della Cei sugli investimenti finanziari dove è stata inserita l’importanza della decarbonizzazione. E comunque la Laudato Sii ha indicato il percorso che si farà nei prossimi anni e che coinvolgerà imprese, diocesi, parrocchie, famiglie, università nel nome di un’ecologia integrale che non è solo rispetto per l’ambiente ma anche per le relazioni umane: noi diciamo che ogni attentato alla vita umana viola l’ecologia, proprio come il papa spiega che il grido della terra è il grido dei poveri.
Ricordando l’estinzione degli abitanti dell’Isola di Pasqua, sempre nel suo libro spiega la centralità delle politiche che favoriscono la cooperazione tra individui a scapito del tornaconto personale. Come sviluppare questo approccio?
Qui si potrebbe parlare a lungo. Il tema è questo: noi siamo abituati, a livello di teoria e di modelli economici, a fondarci sull’individualismo metodologico, ovvero sull’idea che tutto parte dall’individuo. Questo può funzionare però per i beni privati, ma quando ci occupiamo di beni comuni quello che faccio per me non è né efficace né efficiente per tutti. La pandemia ha mostrato con chiarezza questo meccanismo. Dunque abbiamo bisogno di una razionalità collettiva.
Lei sostiene che il cambiamento non possa venire da regole distanti da come le persone si comportano o da messaggi troppo moraleggianti.
Elinor Ostrom, premio Nobel per l’economia, ha spiegato come noi siamo abituati a istituzioni che partono dal principio per cui le persone sono egoiste, per cui occorre allinearle con sistemi di controllo punitivi. In realtà, Ostrom ha mostrato come abbiamo bisogno di organizzazioni e istituzioni che riescano a tirare fuori la parte migliore dell’essere umano, pur rischiando che qualcuno si approfitti di questo. Penso a tantissime aziende che si stanno organizzando senza cartellini, né orari, basandosi sulla fiducia.
Dell’economia fa pare anche il lavoro di cura, svolto per lo più dalle donne gratuitamente. Questo lavoro andrebbe retribuito? Ad esempio darebbe uno stipendio alle casalinghe?
A livello culturale facciamo l’errore di identificare il gratuito con il gratis, in altre parole pensiamo che ciò che è gratis non valga. Questo ha portato a sottovalutare i lavori di cura tradizionalmente affidati alle donne o al privato. Invece questa pandemia ha mostrato quanto ci sia bisogno di riconquistare la rilevanza pubblica della cura. Sullo stipendio alle casalinghe penso che sia giusto retribuire fasi di emergenza in cui una persona è costretta a stare a casa, ma non lo istituirei come una norma sociale collettiva.
Su che base ottenere maggiore parità di genere?
Il punto è che noi, uomini e donne, non siamo due specie distinte, siamo – appunto – esseri umani, con sensibilità però diverse che storicamente si sono tradotte in uno stato di sottomissione delle donne. Tuttavia non bisogna tendere all’eguaglianza nel senso di fare le stesse cose. L’obiettivo è che ci siano pari opportunità, fin da quando le bambine sono piccole e questo significa andare oltre gli stereotipi. Sono usciti diversi articoli sul fatto che nei paesi a guida femminile la gestione della pandemia è stata più efficace per la chiarezza delle decisioni, l’efficacia comunicativa e l’empatia.
Come si pone rispetto al dibattito su crescita/decrescita felice? Alcuni ambientalisti, come Daniel Tanuro, sostengono che il capitalismo non può essere in alcun modo verde.
Io direi che non ci serve né la decrescita né un capitalismo verde ma un nuovo modello di sviluppo che abbia come obiettivo il benessere delle persone. E abbiamo bisogno di una transizione ecologica, ma per farla bene occorre pensarla prima, ad esempio pensando in anticipo a coloro che perderanno il lavoro. Ci vuole una visione ampia e lunga che purtroppo non sempre c’è.
Perché dovremmo imparare molto dal mondo delle piante?
Le piante sono vive e hanno delle forme di cooperazione strabilianti. Le foreste sopravvivono perché le specie collaborano le une con le altre, come ha mostrato magistralmente Stefano Mancuso. Noi come economisti abbiamo sempre avuto come riferimento il modo della fisica oppure quello animale, ma mai quello vegetale. Pensi che le piante non hanno cinque sensi ma 15, perché dovendo stare ferme devono essere in grado di reagire velocemente agli choc esterni. Insomma c’è tantissimo che possiamo imparare.
Vuole dare un giudizio sulla politica italiana e europea rispetto all’ambiente?
Mi sembra che la strategia europea abbia una visione e che il Green Deal incorpori anche obiettivi sociali di lungo periodo, com’è giusto che sia. Ripeto ci vuole molta oculatezza, specie verso le persone che perderanno la propria occupazione, restando fuori.
In conclusione: il cambiamento climatico la preoccupa? Quanto la aiuta la fede su questo aspetto?
Secondo me non è tanto una questione di fede: i dati sembrano parlar chiaro, assisteremo rapidamente a cambiamenti degli ecosistemi e ciò di cui dobbiamo renderci conto è che a soffrire non sarà l’ambiente ma gli esseri umani. Per questo serve amore verso noi stessi e verso chi verrà dopo. Io cerco ovviamente di fare la mia parte.
Pubblicato sul Fatto Quotidiano di luglio 2020
Foto di Jeon Sang-O da Pixabay