In una recente intervista il presidente del Libano ha detto che il rischio di mancanza di cibo nel suo paese è reale: la dipendenza dal grano e mais ucraino infatti è fortissima, così come è quella dell’Egitto e in parte la nostra. Allo stesso modo, noi che non avevamo alcuna idea sulla provenienza del gas per riscaldare le nostre case e fare l’elettricità che inconsapevolmente usiamo, ci siamo scoperti dipendenti da un paese che ha intrapreso una guerra sanguinaria. E ora stiamo cercando di uscire da quella dipendenza passando ad altri tipi di dipendenza: dalla Libia, dall’Algeria e, attraverso i rigassificatori che in fretta e furia si cominceranno a costruire, anche da altri paesi. Ma sempre di dipendenza si tratta.
Dipendere è la parola chiave: perché significa non essere veramente liberi né al sicuro. Eppure nel mondo globalizzato e in cui le merci attraversano i continenti come se nulla fosse ci siamo illusi che un bene che proveniva da migliaia di chilometri o quello prodotto sotto casa, sia il grano, sia l’energia, fossero uguali. Invece così non è. Anche per quanto riguarda il grano si cerca ora affannosamente di rivolgersi ad altri paesi, come il Canada. Ma proprio qui avanza un altro motivo di enorme inquietudine: infatti proprio in Canada l’anno scorso un’ondata di calore senza precedenti ha distrutto parte dei raccolti.
Il punto in cui ci troviamo è questo: abbiamo capito che dobbiamo essere autonomi il più possibile ma l’abbiamo capito tardi. Dal punto di vista energetico, infatti, servirà molto tempo prima che si possano installare pannelli e impianti eolici in grado di passare a una maggioranza di energia rinnovabile se non addirittura la totalità. La pianificazione andava fatta prima, quando l’Italia cominciava a essere leader, salvo poi restare indietro a causa di una politica dissennata che interruppe i sussidi alle rinnovabili, abbandonandole. Il secondo problema che abbiamo di fronte è proprio la crisi climatica. Come è evidente in queste dolorose settimane in cui l’Italia soffre una siccità spaventosa che non sappiamo come finirà, la spinta verso l’autarchia alimentare, quella che ci renderebbe relativamente più sicuri, potrebbe diventare impossibile a causa del clima. Se i raccolti non fossero sufficienti dovremmo per forza importare, finendo in una spirale che non ha al momento nessuna chiara via di uscita.
Certo aiuterebbe un cambiamento radicale dei nostri consumi e dell’economia. Se mancano i mangimi per gli animali forse questo ci dice che dovremmo andare verso una diminuzione radicale degli allevamenti intensivi. Una svolta che potrebbe essere spinta da scelte che onestamente oggi dovrebbero essere quasi obbligatorie, come quello di ridurre o eliminare la carne, specie rossa, specie gli insaccati. Dovremo anche abituarci a non avere tutti i prodotti del mondo sulle nostre tavole. In futuro la varietà potrebbe drasticamente diminuire ma un nostro adattamento è possibile. La dipendenza dal gas ci spingerà anche quanto più possibile ad abbandonare le auto a favore di mezzi pubblici e delle meno ecologiche macchine elettriche. E così via.
Senz’altro, si tornerà a una nuova austerity, legata soprattutto alla crisi climatica e alle nuove guerre, dove, si spera, non saranno le persone povere a farne le spese maggiori, come purtroppo ad oggi pare: quei poveri che hanno magari acquistato macchine a benzina perché nessuno gli ha spiegato che il carburante arriva dall’estero e che quindi proprio a rivolgimenti e cambiamenti geopolitici è legato. Quelle persone che non sanno che la mancata transizione energetica, la miopia rispetto all’investimento sulle rinnovabili ricade oggi proprio su di loro, come d’altronde tutte le scelte politiche sbagliate che a un certo punto presentano un prezzo. Ma, in genere, non a chi le ha votate.
Forse, come con la pandemia, riusciremo ad adattarci in extremis, a cambiare i nostri comportamenti per provare a invertire la rotta di una globalizzazione che avanza dritta verso la distruzione. Forse. In ogni caso è triste pensare che i cambiamenti vengano solo sotto la spinta delle emergenze e delle crisi devastanti. Che ci aspettava un futuro di pandemia, guerre e crisi climatica e che le cose tra loro sono intrecciate era stato detto dagli scienziati più autorevoli già da anni. Ma ormai le parole non hanno un peso, si è persa la capacità di immaginare la realtà che un articolo scientifico prefigura con chiarezza, basta essere capaci di leggere. Invece, schiacciati sul presente, non riusciamo più a pensare il futuro per attrezzarci. Poi la realtà arriva con la sua violenza e ci troviamo impreparati.
Un po’ come gli animali quando accade un evento estremo, un’eruzione, un terremoto. Con la differenza che gli animali nulla di male hanno causato mentre noi, pur non utilizzando quella ragione che ci è stata data proprio per prevenire e proteggere in anticipo, siamo comunque la causa degli eventi che ora ci travolgono. E che ci costringono a una corsa contro il tempo per invertire la rotta, per andare verso quella direzione che chi era consapevole e capace di leggere i fatti – come scienziati, ambientalisti, ma anche agricoltori – indicava inascoltato da anni.
Pubblicato sul Fattoquotidiano.it, marzo 2022