Lavoro sfruttato, mal pagato, precario. Lavoro che porta sempre più morti. Lavoro di cui la gente è stanca, tanto da licenziarsi in massa. Del lavoro, oggi, si parla per lo più in maniera negativa. E giustamente, anche. I giovani fanno fatica dopo lauree e master a trovare uno straccio di stage o lavoro precario e vengono sfruttati per anni senza che la situazione cambi o si stabilizzi. Le donne non riescono più a conciliare tra lavoro e famiglia, stipendi troppo bassi, servizi inesistenti. Ma anche gli uomini, i bread winner di un tempo, sono stanchi. Oltre che essere a rischio quando fanno lavori pericolosi, spesso hanno perso il senso di lavorare; così come aziende che hanno, a loro volta, smarrito valori e progetti veri.
Per cambiare tutto questo non bastano interventi di piccolo calibro, come il pagamento degli stage. O l’aiuto dei navigator. La spirale italiana è fatta soprattutto di una scuola che non forma abbastanza e di università inadeguate. Su quelle bisognerebbe massicciamente investire. Ma prima ancora, bisognerebbe rendersi conto che oggi esiste una straordinaria opportunità per cambiare radicalmente il mondo del lavoro. E in meglio. E questa opportunità si chiama transizione energetica e ancor più transizione ecologica. Infatti, la transizione non è fatta solo di decarbonizzazione dell’energia e di rinnovabili. Ma porta con sé anche una quantità letteralmente inimmaginabile di nuovi mestieri. Tutti legati alla sostenibilità e all’ambiente. Si tratta di figure di ogni livello.
Perché per fare la transizione abbiamo bisogno davvero di tutti: agricoltori, artigiani, agronomi, esperti in foreste, esperti di energie rinnovabili, architetti verdi, avvocati esperti in diritto ambientale, chimici verdi, esperti in rifiuti e in economia circolare, esperti in turismo sostenibile; oltre che oceanografi, biologi marini, medici ambientali, climatologi e poi tantissime figure che siano specializzate nelle nuove tecnologie necessarie per la transizione: che sono così tante che è impossibile elencarle. Ma anche umanisti: ad esempio esperti di beni culturali e cambiamenti climatici, ma anche formatori ed educatori. Si tratta realmente di migliaia di nuove figure che il nostro sistema spesso non riesce a trovare. Tanto che in parte, ma solo in parte, le università si sono mosse prevedendo corsi di laurea in sostenibilità. Ma non basta.
Quello che manca in maniera tragica e lampante è l’interesse della politica verso le ricadute occupazionali della transizione ecologica. Peggio: c’è l’incapacità di vedere la transizione come una occasione incredibile, anche per i lavoratori e le lavoratrici. C’è l’incapacità di raccontarla alle persone come un’ancora di salvezza in tutti i sensi, anche occupazionale, appunto, perché la verità è che chi dovrebbe occuparsene, cioè il ministro della Transizione ecologica, o non lo sa, e mi pare difficile, o non ci crede veramente, impegnato com’è a occuparsi ancora di fonti fossili.
Questa incredibile mancanza di visione è totalmente stupida, anche perché consentirebbe ai nostri politici di dare speranza alla gente e di rivoltare la narrazione tragica del cambiamento climatico, pure vera, con una narrazione alternativaall’insegna di maggior ottimismo.
Questo ovviamente comporterebbe poi un lavoro fitto con le università ma anche con le scuole, licei e istituti tecnici. La sostenibilità deve diventare infatti non un contenuto, ma un approccio trasversale a qualsiasi materia si studi. Come dicevo, più che nuovi corsi di laurea in sostenibilità, pure necessari, bisognerebbe dare a ogni figura professionale una formazione anche ambientale, in modo che possa applicare le sue competenze sui nuovi temi e problemi che si vanno creando. I ragazzi potrebbero recuperare fiducia, sentendosi finalmente ricercati, sentendo di star facendo, opportunamente orientati, una scuola e un corso di laurea veramente utili. E si potrebbe forse recuperare una parte di quell’esercito imponente dei neet che non studiano e non lavorano.
Ci vorrebbe ovviamente, sempre da parte della politica, anche un investimento massiccio nei suoi settori dell’economia verde e un sostegno a tutti quei settori che, invece, non sono più sostenibili, per aiutarli a trasformarsi laddove possibile. Ma bisognerebbe comunque partire da una diversa narrazione, a livello istituzionale e politico. Che non c’è. Nel giorno della festa del lavoro è opportuno ricordare anche questo: e cioè che, invece, il lavoro c’è, perché la transizione ecologica crea una quantità inimmaginabile di nuove figure professionali tanto necessarie da essere spesso introvabili.
Invece di fare una guerra sciagurata e controproducente, che toglie fondi a ciò che servirebbe davvero, sarebbe ora di parlare di questo. E occuparsi di lavoro, cioè di futuro.
Fattoquotidiano.it, 1 maggio 2022