È difficile dimenticare l’immagine di Greta Thunberg seduta, nell’agosto del 2019, da sola, davanti al parlamento svedese. Quell’immagine raccontava di una forza inaudita, quella di sfidare la paura, il giudizio del mondo, quella – anche – di fare un gesto che magari non sarebbe stato capito e forse non sarebbe servito. La storia è andata in modo diverso e in pochi mesi Greta Thunberg è divenuta l’attivista per il clima più nota al mondo. Il che non le ha risparmiato attacchi di ogni tipo, così come la sensazione, talvolta, di sentirsi sola, sensazione lenita dalla sua famiglia e dalla sue seconda famiglia, i ragazzi dei Fridays for future.
Immaginate ora che Greta non viva in Svezia ma in Uganda. Dove le famiglie si indebitano per mandare i figli a scuola, dove saltare anche un solo giorno di scuola o di college significa essere espulsi o sospesi, col rischio di perdere per sempre quella possibilità educativa. E con il rischio, anche, di essere arrestati. È quello che ha vissuto Vanessa Nakate, 25 anni, in questi giorni in Italia per presentare il suo libro, molto toccante e al tempo stesso chiaro e diretto, Aprite gli occhi. La mia lotta per dare una voce alla crisi climatica(il titolo originario, in verità, era diverso: A bigger Picture. My Fight to Bring a New African Voice to the Climate Crisis).
L’Associated Press e quella foto a Davos tagliata
Vanessa Nakate era sconvolta dalle devastazioni ambientali che accadevano nel suo Paese, dalla perdita dei raccolti, alle alluvioni, ai rifugiati, alla siccità. Ma era anche spaventata di scendere in strada con un cartello. Lo ha fatto, qualche mese dopo Greta, con paura e terrore. Poi qualcuna l’ha seguita. I cartelli li ha postati sui social network taggando i Fridays for Future. E Greta, un giorno, li ha ritwettati e rilanciati.
Da lì è stato un lento e costante crescere, che ha portato a Vanessa i primi inviti a partecipare a summit climatici di peso: lo Youth Climate Summit, la Cop di Madrid, Davos. Ma il suo racconto è ben diverso da quello che ci si potrebbe aspettare, perché per un attivista africano partecipare a uno di questi summit è complicatissimo. Ci si sente smarriti, non si sa bene a chi rivolgersi nella marea di persone e di eventi, spesso si ha il viaggio pagato ma non gli spostamenti, e i soldi per il taxi non ci sono. Vanessa racconta della sua solitudine, che tornando a casa spesso sfocia in depressione.
E poi possono accadere incidenti spiacevoli, come quando la Associated Press taglia, per errore forse, Vanessa dalla foto con le altre notissime attiviste bionde e bianche tra cui Greta. Un taglio che lei fa notare, contro cui protesta, ricevendo solidarietà. Ma che forse mostra una spinta nel fianco che esiste anche nel mondo dell’attivismo climatico, dove ancora gli attivisti neri sono sottorappresentati.
Quando l’ho incontrata a Roma, coperta da giacca e sciarpa nonostante il caldo (ha sempre freddo: a Davos è andata in crisi ipotermica), mi ha spiegato che no, non crede assolutamente che il movimento per il clima sia razzista, anzi ci sono tantissimi leader di vari Paesi africani. Il problema sta soprattutto nella stampa, nei media: le alluvioni in Germania sono state coperte, spiega, da tutte le testate del mondo, quelle nel suo Paese quasi da nessuno. Tutti si stracciano le vesti per la foresta amazzonica, giustissimo, ma chi si occupa e preoccupa di quella del Congo?
Il dramma delle “climate brides”
In Uganda esistono poi ben altri problemi rispetto ai nostri. La maggior parte delle persone cucina e si riscalda bruciando legna e per questo Vanessa sta seguendo e sostenendo da mesi il Vash Green Schools Project, per dotare le scuole di pannelli solari e di fornelli ecologici. E poi c’è il tema, dolorosissimo, delle “spose climatiche”: perché se la crisi climatica distrugge case e attività, le famiglie senza più nulla devono scegliere chi mandare a scuola. E la scelta ricade sui maschi, mentre le ragazze vengono date in sposa per avere un po’ di dote per riprendersi. Ma Vanessa – che non solo è laureata ma ha studiato moltissimo i temi della crisi climatica – ha chiari i collegamenti tra crisi climatica e gli obiettivi dell’agenda 2030, tutti oggi potenzialmente a rischio a causa, proprio, dell’aumento delle temperature.
La sua delusione verso i leader politici è palese, da chi governa i Paesi africani fino ai leader globali come Biden. Pensa che la soluzione dei problemi climatici verrà dagli attivisti e dalla loro capacità di far sentire la propria voce: come lei è intenzionata a fare alla prossima COP, che si terrà proprio in Africa, in Egitto, un’occasione, dice, perché gli africani facciano sentire compatti le loro richieste in termini di adattamento e mitigazione.
La nostra conversazione finisce parlando di come in Italia si spieghi male la crisi climatica e di come i politici continuino a tacere. Ma poi mi viene spontaneo farle un’ultima domanda, personale. E cioè se lei, in questa situazione drammatica, con un futuro veramente a rischio, un figlio lo metterebbe al mondo. Vanessa risponde sempre parlando lentamente, sottovoce, e abbozzando un lieve sorriso: “Se stiamo combattendo contro la crisi climatica e per un mondo migliore significa che non siamo ancora condannati, altrimenti staremmo fermi. E dunque, visto che stiamo ancora lottando, sì, un figlio al mondo io lo metterei”.
Su La svolta.it, 20 maggio 2022