Ci sono momenti in cui la paura sale alle stelle e si fa panico, quando la mente lega i lunghissimi giorni di caldo disumano e l’osservazione dell’aridità ormai invincibile delle nostre città con i dati e le previsioni degli scienziati climatici.
È possibile allora avvertire un sentimento di terrore e disperazione, accompagnato dalla percezione che quasi certamente tutto è perduto. In quei momenti però alcune riflessioni possono essere d’aiuto estremo, quasi un pronto soccorso per lo spirito e il cuore. Come il libro dell’attivista Joanna Macy, Active Hope, (“Speranza attiva”), edito da Terra Nuova.
Le due paure in cui siamo intrappolati (e gli errori degli ambientalisti)
Anzitutto, Macy descrive perfettamente la situazione in cui ci troviamo.
Viviamo con i piedi in due scarpe, in una perenne scissione interiore. «È come se una parte del nostro cervello stesse dando per scontato che andrà tutto bene, mentre un’altra parte sa perfettamente che non è così. Ci troviamo intrappolati tra due paure: la paura di cosa potrà succedere se continuiamo, collettivamente, ad andare nella stessa direzione, e la paura di ammettere quanto è grave la situazione, perché potrebbe portarci alla disperazione».
È esattamente per questo che non parliamo di crisi climatica tra noi. Ed è per questo, nota in maniera illuminante l’attivista statunitense, che le organizzazioni ambientaliste sbagliano quando credono che, se le persone sapessero davvero come vanno le cose, si attiverebbero, e per questo le inondano con notizie, grafici e immagini forti.
Invece le persone già sanno e si sentono sopraffatte, incapaci di gestire altro stress. «In questi casi, presentare ulteriori informazioni spaventose non può che aumentare la resistenza».
Dire la verità ed esprimere il dolore è terapeutico
La crisi climatica è diventata una sorta di tabù per evitare discussioni deprimenti. Questo fa sì che non ci confrontiamo con nessuno su questo, «ci teniamo tutto dentro e soffriamo in silenzio».
Ma così la paura si rafforza, si amplia. È per questo che, secondo Macy, la prima mossa terapeutica per un male che sembra inestirpabile è proprio riconoscere che questo disagio, questo «dolore per il mondo (espressione che include molte emozioni diverse: indignazione, lutto, senso di colpa, timore, disperazione) sia una risposta sana e normale a un mondo traumatizzato».
Affrontare i sentimenti luttuosi serve, toccare la profondità della nostra tristezza anche, perché «quando le persone riescono a dire la verità su ciò che sanno, vedono e sentono cosa sta accadendo al mondo. Avviene una trasformazione». Scegliendo di onorare il dolore della perdita, invece di ignorarlo, si «spezza l’incantesimo».
Speranza attiva, una pratica contro il fatalismo
A quel punto si apre lo spazio per guardare il mondo con occhi nuovi, con strumenti per «affrontare la catastrofe senza impazzire». E la chiave di questo nuovo registro emotivo è la speranza, che però per Macy non significa affatto ottimismo.
La speranza si muove nella dimensione dell’incertezza, fuori dalle dimensioni del collasso sicuro o del “tutto andrà bene”. È consapevole che la catastrofe climatica potrebbe essere probabile, così come non crede che magicamente il tasso di CO2 si ridurrà.
La speranza non richiede ottimismo. È una pratica, «come il tai chi o il giardinaggio», la possiamo praticare quando ci sentiamo disperati. Speranza significa scegliere cosa vogliamo realizzare, per cosa vogliamo agire e cosa vogliamo esprimere, senza fermarci a valutare le probabilità di successo.
È un radicale cambiamento «dell’epistemologia con cui interpretiamo il mondo». Uscendo dal fatalismo come dall’indifferenza, si attiva in noi qualcosa di molto potente, ritroviamo il senso della vita così come scopriamo riserve di forze inaudite.
«Essere in grado di fare la differenza è un’esperienza molto intensa, che ci risveglia e ci fa sentire che la nostra vita è degna di essere vissuta».
Cambiare sentimenti e percezione della realtà: la Grande svolta
Questo cambiamento dei valori di base è fondamentale per quella che Macy chiama la Grande svolta e che, ovviamente, si nutre anche di azioni collettive e battaglie di contenimento per «custodire ciò che rimane della biodiversità, tutelare aria e acqua pulite, foreste e suolo», proteggendo le comunità locali da guerre, sfruttamento, fame e ingiustizia.
Così come «abbiamo bisogno del lavoro di scienziati, ricercatori, giornaliste», impegnati sul fronte climatico. Ma le azioni di contenimento non bastano. La Grande svolta «nasce da cambiamenti nel nostro cuore, nella nostra mente e nella nostra percezioni della realtà».
Un cambiamento, che nota con acume Macy, «coinvolge conoscenza e pratiche che risalgono a tradizioni mistiche e spirituali e, allo stesso tempo, si allinea con la nuove conoscenze scientifiche», in una nuova, felice alleanza tra etica e scienza.
Gratitudine, terapia culturale contro depressione e consumismo
Per salvarsi dal burnout occorre dunque scegliere la propria storia, in base a ciò che desideriamo profondamente, identificare gli esiti sperati e fare la nostra parte, attivamente, perché si realizzino. Senza essere sicure dei risultati ed essendo consapevoli che la storia non procede in maniera lineare, ma che frustrazioni e fallimenti sono all’ordine del giorno.
Oltre all’accettazione dell’angoscia che proviamo verso il mondo, un altro sentimento utile è quello della gratitudine che, spiega l’attivista, può essere di vero aiuto, nella misura in cui sposta l’attenzione da cosa ci manca a cosa c’è. L’esercizio della gratitudine, in questo senso, è una vera «terapia culturale per proteggerci dalla depressione e allo stesso tempo ridurre il consumismo».
Tutto questo senza, appunto, sapere a che punto della devastazione siamo arrivati. Per agire e non soccombere: non è quello che ci importa. Macy lo dice in modo illuminante: «Non ha senso discutere di quale narrazione, ottimista, catastrofica, incerta, sia giusta. Stanno succedendo tutte e tre. La domanda è piuttosto: in quale storia vogliamo investire la nostra energia?»
La Svolta, giugno 2022
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