Ci sono due gruppi di dati riguardanti il nostro Paese che dovrebbero veramente preoccupare qualsiasi politica degna di questo nome. Da un lato, l’importo dei salari, dall’altro il numero di laureati in Italia.
Su questi due fronti l’Italia sta andando al contrario rispetto alla quasi totalità dei Paesi europei. Infatti, mentre gli stipendi negli ultimi anni sono cresciuti ovunque, in Italia tra il 1990 e il 2020 sono calati: siamo indietro a tutti, anche ai Paesi di area mediterranea come Grecia, Spagna e Portogallo.
Lo stesso dicasi per il numero dei laureati: l’Italia ha il 29% di laureati tra i 25 e i 34 anni, avanti solo alla Romania. Il Lussemburgo è al 61%, poi a seguire Irlanda, Cipro, Lituania, Paesi Bassi, tutti sopra il 50%. L’Europa chiede di arrivare al 45% entro il 2030 (la media europea è del 41%), ma l’Italia nell’ultimo anno è addirittura scesa, dal 28,9% al 28,3% del 2021.
Stipendi poveri e precari. E pochissimi laureati
Proviamo a tradurre questi dati in fotografia: gli italiani guadagnano pochissimo, hanno stipendi che consentono loro appena di sopravvivere. Ovviamente, va tenuto conto dell’immensa evasione fiscale del nostro Paese, così come del fenomeno ancora assolutamente vivo e presente del lavoro nero. Tuttavia, le cifre sono queste: 17.335 euro è lo stipendio medio, con la metà dei contribuenti tra 10.000 e 30.000, un quarto sotto i 10.000, poco più del 20 tra 30.000 e 70.000 e solo il 3,7% oltre 70.000.
Inoltre, a parte la pubblica amministrazione e le grandi aziende private, le retribuzioni sono anche precarie, intermittente, legata a periodo di tempo confinati e così via. Questo significa che la principale preoccupazione della maggior parte della popolazione italiana è quella della sopravvivenza: che si raggiunga o meno in modo legale, in ogni caso l’assillo è quello.
Le resistenze di chi è povero al cambiamento
Si potrebbe pensare che il livello bassissimo dei laureati (e in proporzione dei diplomati) spieghi anche la quantità di cattivi lavori. Sicuramente in parte è così, i laureati possono contare su lavori più retribuiti e migliori. Ma gli stipendi bassi, i contratti a termine, le partite Iva e dunque le scarse tutele colpiscono anche i laureati, anche se in misura minore. Certo è che il basso livello culturale degli italiani è un dato drammatico, che ha moltissimi riflessi.
Tutto ciò ha pesanti conseguenze sul successo della transizione ecologica in Italia.
Chi studia bene la transizione lo sa: il primo ostacolo al cambiamento è la diffidenza e la paura verso la transizione ecologica di chi è povero, o guadagna poco, vive per riuscire a sopravvivere.
L’ambiente viene percepito come qualcosa da ricchi. Molte misure ecologiche, come lo stop alle auto inquinanti nelle fasce verdi della città, sono vissuti con ostilità, se a esempio chi usa la macchina per lavorare sarà costretto a non prenderla più perché bandita, e magari non ha soldi a sufficienza per cambiarla. La discussione recente sulla direttiva Ue rispetto alle case non efficienti dal punto di vista energetico è un altro esempio.
Purtroppo, il problema è che spesso le lobby sfruttano spesso le resistenze dei cittadini comuni per imporre la loro visione, a esempio per chiedere incentivi per macchine ancora inquinanti o boicottare appunto misure che porterebbe a un miglioramento di inquinamento e a una riduzione delle emissioni
Come può capire la transizione chi non ha studiato?
E qui subentra il secondo problema: perché se fossimo poveri ma più colti, sarebbe meno facile cadere nelle trappole di politica e grandi aziende. Se avessimo titoli di studio più alti, capiremmo molto meglio, pur restando la sopravvivenza la nostra preoccupazione principale, che la crisi climatica è un insieme di fenomeni gravi e sempre più incombenti che minacciano le nostre esistenze.
Ma capiremmo anche che le bollette da centinaia di euro non sono il risultato di un dittatore che un giorno ha deciso di invadere e distruggere un Paese, come ci vogliono far credere, ma del fatto che non siamo indipendenti a livello energetico – perché abbiamo trascurato le rinnovabili affidandoci al gas – e che invece potremmo esserlo e persino in modo pulito, senza inquinare e al tempo stesso senza spendere.
Perciò i politici che hanno bloccato le rinnovabili negli ultimi anni sono anche quelli responsabili sia della nostra miseria economica che della nostra salute minacciata dal clima. Così al tempo stesso saremmo molto più in grado di proteggerci dalla valanga di pubblicità delle grandi aziende che producono o gestiscono gas nel nostro Paese, e che ci vogliono far credere che il gas rappresenti la stabilità, la sicurezza, insomma la buona vecchia tradizione. E chiederemmo a gran voce la fine di quest’utilizzo ancora spudorato dei combustibili fossili – vedi decreto sulle trivellazioni nei nostri mari del governo Meloni – sia per non morire di emissioni che per non morire di bollette.
Dov’è finita la protesta sociale?
Niente di tutto questo accade. Prive degli strumenti necessari per comprendere, le persone appunto non capiscono e non capendo non esercitano massa critica verso le istituzioni e la politica. Questo spiega la totale assenza di manifestazioni, fatta accezione di una parte di giovani, per avere misure più protettive contro la crisi climatica.
Si dirà, ma almeno in piazza si dovrebbe scendere per protestare contro la povertà dei salari. Invece, non c’è alcuna protesta sociale, alcuna richiesta di massa di aver quel salario minimo che potrebbe proteggerci dallo sfruttamento. E neanche si scende in piazza per l’età pensionabile, mentre in Francia mezzo Paese si mobilita contro l’innalzamento a 64 anni.
Nei libri di storia abbiamo imparato che da sempre i poveri, i Masaniello di ogni epoca, hanno rischiato la vita per chiedere pane. Oggi non è così. Da un lato, si cerca di arrangiarsi come si può e in tutta questa fatica forse manca il tempo per protestare; dall’altro media e tv, con la loro bassissima qualità scientifica e la loro connivenza con il potere, finiscono per lobotomizzare le persone invece che risvegliarle e spingerle a protestare, a chiedere di più.
Insomma, di fatto l’ignoranza diffusa, dovuta appunto a titoli di studio molto bassi, frena persino la protesta. Perché per scendere in piazza è necessaria comunque, oltre al tempo che manca in chi deve sopravvivere, una forma di consapevolezza, è necessario capire le connessioni causali dei fenomeni, le responsabilità. Ma meno si è istruiti, meno, paradossalmente, si protesta.
Insomma, anche fattori che non sembrerebbero essere legati alla questione climatica incidono negativamente sulla lotta alla crisi climatica. Incidono negativamente i bassi salari che spingono la gente a preoccuparsi unicamente di sopravvivenza economica e a essere ostili al cambiamento e incide il basso livello di istruzione, che impedisce di realizzare cosa sta realmente accadendo.
Ecco perché, per combattere l’emergenza climatica, servirebbe aumentare il numero di laureati, abbassando le tasse, creando un sistema vero di borse di studio per i non abbienti, creando quelle residenze universitarie che non esistono.
Ecco perché, per combattere l’emergenza climatica, bisognerebbe mettere un salario minimo, aumentare gli stipendi, combattere precarietà e sfruttamento. Di modo che le persone, meno affannate della loro sopravvivenza, possano alzare la testa, cominciare a capire ciò che sta accadendo e finalmente far sentire anche la loro voce.
Dubitiamo che ciò accadrà perché, forse, alla politica va bene così. E d’altronde, come darle torto: quanto fanno comodo cittadini che guardano solo in basso perché impegnati a sopravvivere e senza strumenti culturali per capire perché la loro vita è così misera e poter lottare per il cambiamento?
Pubblicato su La Svolta.it, 23 gennaio 2023
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