Si fa fatica a rintracciare nelle dichiarazioni degli esponenti del Governo un’espressione che pure dovrebbe essere il centro di ogni politica oggi. E cioè la transizione ecologica che è anche e soprattutto transizione energetica. Non andava meglio nei governi precedenti: dopo un bellissimo discorso di insediamento in cui il contrasto ai cambiamenti climatici e la transizione ecologica avevano un posto centrale, Mario Draghi ha guidato un Esecutivo in cui, non diversamente dal passato, la transizione ecologica non era al centro delle politiche e insieme delle dichiarazioni.

Cuore della politica energetica di Roberto Cingolani è stato lo spostamento della dipendenza italiana dalla Russia ad altri Paesi, specie africani. Mossa dettata dalla geopolitica, ma che poco ha inciso in termini di contrasto alla crisi climatica. Ma perché i governi non utilizzano invece la transizione come strumento di trasformazione incredibile, creatore di posti di lavoro e di una società veramente più bella, sana, giusta? I motivi a mio avviso sono soprattutto tre.

Niente pianificazione, conflitti di interesse e molta ideologia

Il primo motivo è che la transizione va fatta attraverso una pianificazione che vada oltre la durata di un governo o di una legislatura. Anche se ormai il 2030 è in arrivo, nessuno degli ultimi governi italiani è stato capace di fare un piano strutturale di decarbonizzazione in vista del taglio del 55% delle emissioni. La politica si fa, ieri come oggi, sul presente.

Il secondo motivo sono i conflitti di interesse: il sistema politico e quello industriale sono intrecciati, spesso con conflitti di interesse manifesti o nascosti.

Non esiste una reale indipendenza della politica dalle lobby energetiche, per esempio, così come dal settore dell’automotive e dei trasporti in generale. Se il Governo è legato alle aziende che producono gas e che dalla vendita del gas traggono profitti è ovvio che sarà difficile dichiarare che il gas deve essere un’energia di breve periodo destinata a sparire.

Ma se la transizione comporta una trasformazione profonda del sistema industriale e quel sistema industriale non può essere toccato – oppure occorre stare ai suoi tempi di cambiamento e non a quelli della transizione – è ovvio che a rimetterci sarà appunto la transizione.

Infine, un ruolo chiave lo gioca l’ignoranza, mischiata a una visione ideologica della realtà. Chi ci governa spesso non ha una laurea tecnica, ma neanche proprio una laurea.

I posti chiave sono occupati da profili mediocri, eppure chiamati a decidere di scelte decisive sulle nostre esistenze, viste le conseguenze della crisi sulle nostre vite. Il tutto si accompagna, spesso, a una visione ideologica della realtà e dunque anche della crisi climatica e della trasformazione energetica.

Se pensi che la crisi climatica non esista o sia un’invenzione delle lobby verdi, se sostieni che la transizione si fa con un mix di nucleare, gas e rinnovabili significa che non hai capito come davvero si può contrastare la crisi climatica, né i benefici di una vera transizione. Che viceversa, sono immensi.

Più salute e più occupazione. E i cittadini gestiscono l’energia 

Anzitutto, la transizione energetica salverà le nostre vite. La riduzione delle emissioni, unita anche all’abbattimento di altri inquinanti, proteggerà la nostra salute sotto tutti i punti di vista, dalle malattie respiratorie, all’effetto delle ondate di calore, dal pericolo enorme delle alluvioni, dai rischi per acqua e cibo. Ce ne sarebbe già abbastanza perché la politica facesse propria la transizione come slogan principale (e centro dell’azione politica).

Ma non è solo questo. Se ben governata, la transizione produrrà un’occupazione straordinaria. Per la transizione servono tutte le figure professionali esistenti, ma formate sul tema del contrasto alla crisi climatica. Non solo materie Stem, che pure sono centrali, ma architetti ambientali, avvocati ambientali, comunicatori ed educatori ambientali, psicologi e così via, oltre a una quantità infinita di figure tecniche per realizzare la transizione stessa.

Ovviamente i settori destinati a chiudere vanno aiutati, ovviamente il cambiamento va accompagnato e questo è spesso estremamente complesso, ma il risultato finale sarà più lavoro, non meno. La politica, che di slogan sui posti di lavoro ha vissuto, dovrebbe essere interessata a questo.

Ma la transizione energetica comporta anche un altro straordinario cambiamento. Si passa da un modello di energia accentrato, quello del fossile, nelle mani di grandi aziende gerarchiche e, anche al maschile, a un modello diffuso sul territorio.

Le energie rinnovabili sono molto più democratiche (e al tempo stesso più femminili), perché possono essere gestite dai singoli cittadini, oltre al fatto che abbattono radicalmente e per sempre i costi delle bollette.

Il modello delle comunità energetiche consente a esempio letteralmente alle persone di decidere della propria energia, di produrla e venderla, assegnando ruoli di gestione a cittadini normali che da questa gestione traggono gratificazione e, anche, la sensazione di ritornare padroni delle proprie vite, perché, appunto, l’energia è vita. Quest’ultimo aspetto mi pare un aspetto centrale e importante.

Le rinnovabili, soprattutto attraverso il modello delle comunità più che dei maxi impianti, democratizzano il motore fondamentale delle nostre società, riducendone i costi. E chissà che non sia proprio questo ciò che dà fastidio sia alle grandi lobby sia alla politica stessa. Che sulla transizione ecologica, ben raccontata, potrebbe vincere le campagne elettorali e creare su di sé il massimo consenso. E invece ancora, nel 2023, incredibilmente, non lo fa.

Pubblicato su Lasvolta.it, 31 maggio 23

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *