Pochi giorni fa mi è capitato di parlare con una pediatra che si occupa degli effetti della crisi climatica sulla salute dei bambini. È una persona pacata, dalla voce tranquilla, quasi ipnotizzante.
Con semplicità ed efficacia, mi ha spiegato cos’è il cambiamento climatico: le nostre attività, quelle cioè umane, producono gas che sono climalteranti, tra cui la CO2.
Questi gas restano in atmosfera e vanno a formare una sorta di “coperta” o “cappotto” che intrappola i raggi solari. E questo fa aumentare la temperatura, con tutte le conseguenze del caso.
Una spiegazione semplice che anche un bambino potrebbe capire.
Mentre l’esperta parlava mi tornava in mente la notizia secondo cui, con il Covid, un terzo dei laboratori nelle scuole italiane è stato stralciato per sempre. E, pure in mezzo a un mare di notizie tragiche e ben più negative, questa mi ha colpito particolarmente.
Perché i laboratori, intendo quelli veri (non le cose che oggi si chiamano laboratori ma tali non sono, oggi tutto è laboratorio), dunque – intendo – quelli di chimica, fisica etc, ma anche tutti quelli che hanno a che fare con la materia in generale – quelli tessili, per esempio, o di botanica – rivestono un’importanza fondamentale. Per due ragioni: in primo luogo, perché producono cultura scientifica, partendo dai fatti, quindi non in astratto. In secondo, perché, appunto, consentono un contatto diretto con la materia che oggi si va perdendo sempre di più.
Quegli erbari che oggi prendono polvere
Un tempo nelle scuole esistevano raccolte di insetti, erbari, animali impagliati. Ancora oggi è possibile trovarli in alcune scuole, ma relegati a cimeli.
È il residuo di una cultura positivistica che, pure con dei limiti, ha avuto il pregio di introdurre una cultura scientifica e pragmatica nelle scuole, poi spazzata via con l’idealismo.
Così nelle nostre scuole sono rimaste la matematica e la fisica, ma insegnate in modo estremamente astratto. I laboratori si sono andati via via perdendo, anche a causa di una inutile cultura della sicurezza che impedisce ai docenti di fare il benché minimo esperimento. Il Covid, con le sue regole e i suoi terrori, ha fatto il resto.
Una docente di scuola primaria mi spiega che a loro è vietato fare persino piccoli esperimenti basilari in classe. La denuncia è sempre in agguato e nessuno si prende la responsabilità. Ma questo impoverisce moltissimo i bambini e i ragazzi.
Il problema che abbiamo di fronte, oggi, è questo: come facciamo a reintrodurre il tema della crisi climatica nelle scuole, a riportare la natura a scuola, se manca una cultura scientifica che nasca dall’osservazione e dalla sperimentazione? Come possiamo spiegare gli effetti dell’aumento delle temperature, della siccitàse anche semplici esperimenti di botanica, uniti magari alla presenza di piccoli animali come insetti e vermi, sono impossibili?
Se per spiegare la crisi climatica basta una piantina
Per spiegare gli effetti della crisi climatica basterebbe anche una piantina. Cambiando l’esposizione al sole, alla luce, variando l’acqua e così via si potrebbero far capire moltissime cose in concreto. Perché nella sua enorme complessità, la crisi climatica e i suoi effetti sono una cosa semplice.
La piaga del negazionismo è ancora tra noi, e attraversa le più alte istituzioni, così come il mondo del giornalismo.
Accecati dall’ideologia, i negazionisti di oggi diffondono false informazioni, che confondono le persone.
Ma se i ragazzi avessero una solida cultura scientifica, se i ragazzi potessero essere liberi di fare esperimenti scientifici in modo da capire nozioni anche basilari, come – a esempio – come variano i materiali in base alla temperatura, come resistono o non resistono all’acqua, come diventano conduttori di elettricità, difficilmente i negazionisti potrebbero fare breccia su di loro.
E se è vero che, per fortuna, i ragazzi di oggi sono più consapevoli degli anziani rispetto alla crisi climatica, è comunque vero che ricevere martellanti informazioni distorte non aiuta. La scuola dovrebbe essere il primo fronte che impedisce alle false notizie, specie sul clima, di arrivare ai ragazzi. I quali a loro volta, potrebbero poi “contaminare” positivamente genitori e nonni.
Più esperimenti per contrastare la digitalizzazione
Ma, appunto, tutto questo richiede che la scuola sia portatrice di una cultura scientifica nel miglior senso del termine. Ovvero, di quello più semplice e anche, in fin dei conti, divertente.
La scienza è nata dall’osservazione della natura, nulla di più. E mentre noi madri regaliamo ai nostri figli decine di kit del piccolo scienziato, che per lo più finiscono in soffitta o vengono usati per fare altri giochi – perché dovrebbero essere venduti insieme a qualcosa di fondamentale, ovvero un docente – dall’altro la scuola è diventata sempre più “de-naturizzata”, con una cultura scientifica carente oppure troppo astratta, lontana.
Vanno bene le equazioni, ma servirebbe anche capire come si produce l’elettricità, per esempio. Stupendo studiare geografia astronomica, ma pure sezionare un animale morto, anche (lo hanno fatto in una scuola di mia conoscenza, prendendo e toccando con mano diversi organi di un maiale).
Oggi questo tipo di sapere sarebbe doppiamente fondamentale. Primo, perché, come dicevo, aiuterebbe i ragazzi a capire meglio la crisi climatica che stiamo vivendo, i suoi meccanismi in qualche modo semplici, impedendo al negazionismo di fare breccia nei ragazzi.
Secondo, perché com’è noto viviamo in un’epoca completamente dematerializzata, digitale. Che nessuno demonizza ma è come se i nostri figli mangiassero, che so, uova tutti i giorni della settimana, colazione, pranzo e cena. E siccome i genitori difficilmente possono evitare questa deriva, sarebbe compito della scuola compensare la drammatica carenza di contatto con la materia.
“Rimaterializzare” la scuola
Insomma, altro che tablet nelle scuole superiori e medie (o peggio, nelle scuole elementari o dell’infanzia, un crimine).
I soldi del Pnrr non dovrebbero servire a digitalizzare la scuola, semmai a “rimaterializzarla”.
A riempirla di laboratori di ogni tipo, chimici, fisici, botanici. Ma anche di cucina, falegnameria o ferramenta.
Sono attività semplici, che migliorano l’equilibrio mentale ed emotivo dei ragazzi, che consentono loro di assimilare una cultura scientifica di base tanto pragmatica quanto fondamentale. E se hai fatto un laboratorio di botanica, a esempio, o di chimica, difficilmente potrai credere a un uomo in giacca e cravatta che da uno strumento vetusto come la televisione grida che la Groenlandia era verde e faceva caldo anche negli anni Cinquanta.
Perché la piantina in laboratorio l’hai vista vivere o morire. Perché il laboratorio di chimica ti ha mostrato gli effetti dell’aumento di temperatura. E così via.
Cominciamo a contrastare la crisi climatica così, riportando i laboratori nelle scuole. E con essi una salda cultura scientifica.
Poi sarà più facile parlare di deforestazione, permafrost, acidificazione degli oceani e tutti il resto. O forse non ci sarebbe neppure bisogno, perché chi ha strumenti per capire come funzionano le leggi elementari del mondo (banalmente, il principio di causa effetto che pure sfugge a politici e fantomatici comunicatori), chi il mondo lo ha toccato con le sue mani, percependone la materia, e le sue trasformazioni, capisce facilmente cosa quel mondo lo sta mettendo drammaticamente a rischio. E anche perché.
La Svolta, 2 ottobre 2023