“Le aziende chimiche hanno disatteso la legge per anni, vendendo sostanze che potrebbero causare cancro, disturbi neurologici e altri gravi problemi di salute. Come consumatori siamo tenuti all’oscuro, senza sapere se i prodotti che usiamo tutti i giorni sono sicuri oppure no”. A parlare è Manuel Fernandez, Chemicals policy officer di BUND, una grande organizzazione ambientalista tedesca che fa parte dell’European Environmental Bureau (EEB). Questa agguerrita associazione ha portato avanti negli ultimi mesi una dura battaglia contro la European Chemicals Agency (ECHA), l’organo che controlla, o dovrebbe controllare, se le aziende che producono o utilizzano sostanze chimiche – tra cui produttori di cosmetici, cibo, medicine, plastica – rispettino la regolamentazione europea (REACH). Regolamentazione che stabilisce che sia produttori che gli importatori, secondo il principio no data no market, raccolgano informazioni sulle proprietà delle sostanze chimiche (vendute o importate oltre le 1000 tonnellate l’anno) e le registrino in una banca dati presso l’ECHA, dopo aver completato i test di sicurezza (i dati vanno poi obbligatoriamente aggiornati). In realtà, la stessa ECHA, lo scorso novembre, per ammissione del suo direttore Bjorn Hansen, aveva dichiarato che più di due terzi dei prodotti registrati – e quindi dichiarati di fatto utilizzabili – infrangerebbero aspetti importanti del regolamento REACH sulla sicurezza. Il risultato nasce dall’analisi di 2000 dei 94.000 dossier (o fascicoli) sottomessi all’ECHA dalle aziende per 22.257 sostanze prodotte e 14.714 aziende coinvolte. L’ECHA ne ha analizzati 700 trovando appunto che il 70% violava le norme di registrazione, valutazione e autorizzazione delle sostanze chimiche, nonché le relative restrizioni.
L’ECHA si rifiuta di fare i nomi
Dopo la clamorosa ammissione dell’Echa, numerose ONG ambientaliste hanno fatto pressione – parlando di un “dieselgate dell’industria chimica” – per sapere i nomi delle sostanze e delle aziende coinvolte, ma ECHA si è rifiutata di pubblicarli.
A quel punto, l’associazione BUND, per avere i nomi, ha richiesto accesso agli atti di un’indagine sul livello di conformità dei dossier sulle sostanze prodotti dalle aziende fino al 2014, condotta sia dalla German Environmental Agency (UBA) che dal German Federal Institute for Risk Assessment (BfR). Già nel 2015 UBA e BfR, infatti, avevano presentato alcuni risultati preliminari della loro indagine su 1814 fascicoli, mostrando che il 58% delle sostanze non corrispondevano ai criteri richiesti. Nel 2018 il risultato finale del progetto (chiamato Reach Compliance: Data Availability in Reach Registration): 32% dei fascicoli non erano conformi ai requisiti legali, soprattutto per mancanza di informazioni. Solo 31% era considerato conforme, il 37% definito come “complesso”, cioè da indagare ulteriormente. BUND ha richiesto al BfR i nomi delle aziende e sempre nel 2018 il BfR ha svelato le 941 sostanze chimiche non conformi, ma si è rifiutato di dare i nomi delle compagnie coinvolte, appellandosi alla confidenzialità commerciale. BUND ha poi controllato anche nei database di ECHA, trovano 6.773 aziende che utilizzerebbero le 941 sostanze non conformi. Secondo l’EEB, “più di 300 sostanze chimiche industriali sono state trovate negli umani che non erano presenti nei nostri nonni e i neonati sono descritti come pre-inquinati”. Cancro, problemi riproduttivi, disordini metabolici e danni al neurosviluppo potrebbero essere alcuni dei rischi legati al contatto delle centinaia di sostanze non conformi.
Le 42 sostanze sicuramente non a norma
Nonostante BUND abbia setacciato tutti i dossier aggiornati fino al 2019, per una serie di di paletti da parte di ECHA ha deciso di pubblicare solo una lista di 42 sostanze sicuramente non a norma perché facenti parte dei fascicoli non aggiornati. Tra queste ultime, ad esempio, c’è il dibutilftalato, un plastificante utilizzato in pavimenti, mobili, giocattoli, tende, calzature, cuoio, prodotti di carta e cartone e apparecchiature elettroniche; l’acetato di metile, usato in prodotti di rivestimento, adesivi e sigillanti, cosmetici e prodotti per la cura personale, per l’igiene e la pulizia; infine il tricloroetilene, utilizzato principalmente a livello industriale. C’è poi l’elenco delle aziende che utilizzerebbero le 42 sostanze a rischio, ben 692. La maggior parte in Germania (169), poi in Gran Bretagna (80), in Francia (57), in Italia (49) e Spagna (42). Quando ai nomi delle aziende, “cinque delle prime 10 società chimiche globali di vendita sono implicate”, ha scritto EEB in una nota: “Basf, Dow Chemical, Sabic, Ineos, ExxonMobil. E poi 3M, Henkel, Sigma-Aldrich, Solvay, Du Pont, Clariant, Thermo Fisher. Alcune aziende sono responsabili di controversie passate, inclusi Bayer (glifosato), Dow Chemical (Bhopal) e Chemours (GenX). Altre aziende note includono Michelin, BP e Endesa”. Ci sono poi “il gigante dei cosmetici L’Oréal, la ditta di alimenti e bevande Dsm e il produttore di medicinali Merck“. Vista la portata del fenomeno, BUND ha chiesto che “Echa pubblichi immediatamente nel suo database i nomi delle sostanze chimiche con informazioni carenti e i nomi delle aziende”.
BUND: “È solo la punta dell’iceberg”
Non solo: l’organizzazione chiede ropattutto che Echa incrementi l’efficienza dei controlli. “BUND ha rivelato solo la punta dell’iceberg: ora è l’ECHA a doverci dire il resto. REACH è la migliore e più ambiziosa regolamentazione chimica del mondo, ma conta poco se non viene presa sul serio“, ha detto Tatiana Santos, responsabile della politica sui prodotti chimici dell’EEB. Ai governi nazionali, le organizzazioni chiedono di verificare che la normativa europea venga applicata e di imporre sanzioni più severe nei confronti delle aziende che violano i principi di sicurezza. ”Come al solito, il problema non è la legge, ma i controlli, che funzionano a macchia di leopardo,“ commenta Gianfranco Amendola, ex magistrato esperto in reati ambientali e docente di Diritto dell’Ambiente all’Università La Sapienza di Roma. “L’ECHA deve avviare un controllo a tappeto su tutti i prodotti chimici registrati per coprire questo gap informativo, mentre le autorità nazionali devono far rispettare il regolamento europeo”, dice Mauro Albrizio, Direttore dell’ufficio europeo di Legambiente e membro del board del EEB. Anche perché, conclude Amendola, “bisognerebbe far valere il principio di precauzione secondo cui quando c’è incertezza sul fatto che una sostanza possa essere pericolosa la si deve ovviamente considerare tale”.
Foto di Polina Tankilevitch