17.500 dollari all’anno, reddito “teorico” procapite che risulta dividendo il reddito globale per i 7 miliardi e 700 milioni di persone sulla terra, dovrebbero rendere gli esseri umani relativamente felici. E invece non lo siamo, almeno non come ci aspetteremmo rispetto a quel reddito. A spiegarci con chiarezza perché sono due poderosi report sulla felicità globale usciti quest’anno: il World Happiness Report 2019, curato da John F. Helliwell della University of British Columbia, Richard Layard della London School of Economics e Jeffrey D. Sachs (Columbia University). E il complementare Global Happiness and Wellbeing Policy Report 2019, curato dal Global Council for Happiness and Wellbeing (GCHW), un network globale di ricercatori e scienziati. Gli studiosi si affrettano a spiegare che quell’ipotetico reddito non è equamente distribuito – 1.2 miliardi di persone arrivano a 47.000 dollari mentre 700 milioni solo a 2.000 – per cui è evidente che la lotta alla povertà resta un obiettivo fondamentale per rendere felice chi ha pochissimo. Ma la vera discriminante del nostro benessere non è la ricchezza. Serve buona salute, ovvio, ma soprattutto salute mentale; serve avere amici e praticare la generosità, ma serve anche un buon supporto sociale, fiducia nella società e infine governanti onesti e assenza di corruzione. E si badi bene che non si tratta di vaghe raccomandazioni etiche. La felicità, sottolineano gli esperti, è un parametro che si può studiare esattamente come qualsiasi altra cosa, utilizzando un rigoroso metodo sperimentale.
Ed è proprio utilizzando sei variabili – reddito, aspettativa di vita, generosità, assenza di corruzione, libertà, sostegno sociale – che gli studiosi hanno stilato quest’anno la classifica globale della felicità. Le sorprese sono poche, almeno per i paesi al vertice: vola in testa la Finlandia, seguita da Danimarca, Norvegia, Islanda. E poi Olanda, Svizzera, Svezia, Nuova Zelanda, Canada, Austria. Tra i primi venti ci sono anche Costa Rica, Lussemburgo, Israele, mentre l’Italia si piazza al 36 posto, recuperando 11 posizioni. Ma è una buona notizia relativa, perché nel report di quest’anno per la prima volta viene fatta una comparazione complessiva tra i dati del 2005-2008 e quelli del 2016-2018. Su 132 paesi, 106 hanno avuto cambiamenti significativi: 64 in meglio, 42 in peggio, tra cui Venezuela, India, Malaysia e Ucraina, Yemen, Botswana e Venezuela. Ma nella lista delle nazioni che sono crollate – molte delle quali figurano infatti ai piedi della classifica di quest’anno, tra cui numerosi paesi africani, ma anche l’Ucraina, l’India, la Siria – ci sono anche, oltre alla Grecia, Spagna e Italia. Il paese che invece è risalito di più, di ben 50 posizioni? Il Benin, in Africa occidentale. A colpire soprattutto è la distribuzione eterogenea di chi fa donazioni e/o attività di volontariato: in cima alla classifica Australia, Hong Kong, Islanda, Indonesia, Malta Nuova Zelanda, Stati Uniti per donazioni (l’Italia è al 38,4%), mentre per il volontariato spiccano la Liberia, Sri Lanka, Sierra Leone (Italia al 16,4%).
Se è importante sapere che donare aiuto e soldi produce benessere, specie quando, spiega la curatrice del capitolo sul comportamento sociale Lara B. Aknin, “si è liberi di scegliere chi aiutare, ci si sente connessi alle persone che si aiutano e si sente che il proprio aiuto fa la differenza”, ancor di più è cruciale è cercare di capire quale sia il rapporto tra felicità e voto, come fa il capitolo del prof. George Ward del Massachusetts Institute of Technology. L’assunto che le persone felici abbiano scarsa propensione a votare è sbagliato, al contrario sono politicamente più impegnate. Vero invece che tendono a confermare i governi in carica. Meno chiaro il rapporto tra infelicità e regimi populisti – che però, sarebbero abili a sfruttare la frustrazione – anche studi dimostrano un legame tra insoddisfazione e scelta di un leader forte, o persino autoritario. Ma allora cosa causa tanta infelicità nei paesi con reddito pro capite alto? Il report – che analizza anche l’infelicità degli IGen, gli adolescenti americani, caduta a picco a partire dal 2012 – parla chiaro. Tutte le attività che impiegano l’utilizzo di uno schermo producono depressione e infelicità, contrariamente a chi invece legge di più, dorme di più e magari frequenta la parrocchia. Infine il prof. Sachs parla di una società “di dipendenza di massa”. Marijuana, alcol, tabacco, scommesse on line, eccesso di cibo, sesso dipendenza distruggono salute mentale e fisica e dunque felicità. Per non parlare della corruzione, delle diseguaglianze, di un’economia che sta provocando la distruzione ambientale.
Eppure su questi aspetti i governi potrebbero essere contrastati da politiche pubbliche efficaci (sulle quali si concentra appunto il Global Happiness and Wellbeing Policy Report 2019). Che per essere tali dovrebbero porsi tutte come scopo proprio quello della felicità. Parlare di felicità in ambito sanitario, ad esempio, significa fare politiche efficaci sulla salute mentale, così come permettere terapie antidolore a milioni di persone. Ma, anche, focalizzarsi sulle famiglie dei malati. Un sistema scolastico finalizzato alla felicità svilupperebbe competenze alternative ma complementari a quelle accademiche, mentre le città dovrebbero essere disegnate in funzione della loro sostenibilità, e diventare più verdi, più sicure, più tolleranti e inclusive, più accessibili. Come Aarhus in Danimarca, dove il sindaco ha coperto la piazza della città con un tappeto d’erba e centinaia di alberi, uno spazio puntellato di spazi sociali, di gioco e relax. Il risultato? La criminalità della zona della zona è stata azzerata. E, magari, quel sindaco sarà rieletto. La felicità conviene a tutti.
Luglio 2019, Il Fatto Quotidiano
Foto di Dominika Roseclay