intervista a Enrico Giovannini
Il governo italiano “sull’ambiente sta facendo bene”, ma non sarà facile gestire i fondi che arriveranno dall’Europa per la transizione, perché – fortunatamente – “sono rigidamente vincolati a progetti volti alla sostenibilità”. Nel giorno di apertura della quarta edizione del “Festival dello sviluppo sostenibile” (ASviS) promosso dall’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile, di cui è co- fondatore e Portavoce, Enrico Giovannini, economista, professore ordinario all’Università Tor Vergata di Roma ed ex ministro del Lavoro e delle Politiche sociali del governo Letta, sostiene che oggi siamo di fronte a una straordinaria, e unica, possibilità di trasformazione. E spiega, chiedendo al governo di finanziare un “centro di studi per il futuro”, per capire come la società italiana sia già cambiata, in particolare le donne e i giovani. “Le indagini ci dicono che chi fa più resistenza al cambiamento sono gli uomini ultra cinquantenni in posizione di potere, più refrattari a mutare cultura”.
Si apre la quarta edizione del Festival dello sviluppo sostenibile, sotto il segno della pandemia. Il covid-19 ci ha fatto regredire nelle politiche di cambiamento e nella transizione o no?
Con il rapporto ASviS pubblicato a maggio, abbiamo mostrato come la pandemia faccia male all’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, perché va a colpire numerosi obiettivi: quelli sulla povertà e la disuguaglianza di genere, che aumentano, quelli sulla buona educazione, l’occupazione e il reddito, che diminuiscono e molti altri. In breve, la pandemia è stata un disastro sia nei paesi sviluppati, che in quelli in via di sviluppo e rischia di allontanarci dagli obiettivi fissati per la fine di questa decade di azione. Tuttavia, tutto dipende da come reagiamo. L’Europa l’ha fatto usando l’Agenda 2030 come riferimento per le nuove politiche: i nuovi fondi infatti dovranno essere orientati alla digitalizzazione, alla transizione ecologica, alla lotta contro le disuguaglianze. Da questo punto di vista le linee guida della Commissione europea sono chiarissime.
Venendo appunto al tema del Recovery Fund: quali sarebbero le riforme strutturali davvero “verdi” da attuare subito?
In realtà devo correggerla, perché il cosiddetto “Recovery Fund” si chiama Next Generation EU e prevede vari fondi. Perché è importante chiamarlo così? Perché se noi parliamo di ripresa misureremo l’efficacia di questo piano in termini di qualche decimo di Pil in più; in questo modo invece è chiaro che questi fondi devono andare a migliorare non solo la situazione presente, ma anche le prospettive delle nuove generazioni. Insomma non dobbiamo concentrarci solo sulla ripresa economica, ma sulla resilienza trasformativa, che è la capacità di fare fronte alle crisi cambiando sistema socioeconomico. Se non usiamo questi soldi per questo, la prossima volta sarà difficile chiedere all’Europa altri fondi. Questa è un’occasione straordinaria e unica.
Non pensa che manchi, appunto, una cultura da parte dei nostri politici e delle istituzioni italiane, che sia in grado di capire come utilizzare quei fondi in direzione di ambiente e sostenibilità?
Come dicevo, la Commissione europea ha prodotto un rapporto uscito la settimana scorsa sulla programmazione strategica orientata alla resilienza trasformativa, che vuol dire cercare di rimbalzare avanti, non indietro. Si tratta di una filosofia diversissima da quella classica, soprattutto per un paese che non è abituato a fare programmazione a medio e lungo termine: per questo non bisogna avere troppa fretta nel preparare il Piano. A differenza di altri paesi, non abbiamo strutture abituate a questo tipo di programmazione. Da questo punto di vista devo ammettere di essere dispiaciuto perché al primo governo Conte, ben prima della pandemia, avevo proposto di creare un Istituto di studi sul futuro che il ministero dell’Economia era già pronto a finanziare: invece, non se ne fece nulla. Chissà che non se ne possa riparlare ora.
Cosa pensa del nuovo obiettivo di riduzione delle emissioni che l’Europa ha portato a 55% nel 2030?
Siccome da qui al 2030 non inventeremo nuove tecnologie, per l’Italia si tratta di triplicare o quadruplicare sia i campi eolici sia i pannelli fotovoltaici. Il problema è dove metteremo entrambi, come cioè ci metteremo d’accordo su dove dovranno sorgere i nuovi campi energetici. Purtroppo, abbiamo un problema di governance enorme: basti ricordare che con la riforma del Titolo V della Costituzione abbiamo assegnato la gestione dell’energia alle Regioni. Fare progetti è la parte più semplice, i veri problemi nascono dopo, dal conflitto di competenze.
Cosa pensa del modo in cui l’Italia sta gestendo la fine dei sussidi alle fonti fossili?
Parto sempre dai fondi del Next Generation EU: l’Europa vuole correttamente sapere come questi fondi si rapportano ai fondi nazionali sugli stessi argomenti, quindi se investiamo il 37 per cento dei fondi, come stabilito, nella transizione questo significa 70 e più miliardi per la lotta al cambiamento climatico. In questo contesto, come si fa a giustificare il fatto che lo Stato paghi 19 miliardi a imprese e famiglie per sussidi dannosi per l’ambiente? Se invece mettiamo in campo i miliardi del Recovery and Resilience Facility più i 19 miliardi avremo una quantità di fondi straordinaria che può essere usata per aiutare i settori inquinanti a trasformarsi, dare vita a nuove aziende che mettano l’economia circolare al centro della propria attività. Ma non penso solo all’energia.
A cos’altro si riferisce?
A piattaforme di logistica integrata basata su tecnologie non inquinanti, alla trasformazione della rete ferroviaria in modo da abbattere il numero di tir, ad incentivare la trasformazione della flotta di camioncini che fanno la consegna dell’ultimo chilometro nelle città, i quali sono molto inquinanti. Il problema è che noi non produciamo bus e tir elettrici: perché? È evidente il nostro ritardo e rischiamo che lo stimolo a questa transizione vada a favore di altri paesi.
Secondo lei il governo sta facendo bene su ambiente e clima?
Noi abbiamo dato atto a questo governo che la legge di bilancio 2020, analizzata comma per comma, era la più “verde” mai fatta nel nostro paese. Ad esempio, recependo una nostra proposta, è stato creato un incentivo per le piccole imprese che simultaneamente passano all’industria 4.0 e all’economia circolare, perché i due aspetti stanno insieme. Basti pensare alla possibilità di riciclare i prodotti dotati di un chip, che possono essere recuperati anche se dispersi nell’ambiente. Ma non ci fermiamo qui: proprio oggi abbiamo pubblicato l’analisi dei vari decreti varati dal governo negli ultimi mesi per capire come impattano su ciascun obiettivo sostenibile e soprattutto quanti interventi sono andati alla prevenzione, alla promozione, alla protezione e quanti alla trasformazione verso un nuovo modello.
Come vede, a proposito di trasformazione, il mondo delle aziende italiane?
Ci sono tantissime imprese che hanno sposato la sostenibilità a tutto campo, con un guadagno di produttività che arriva al 15% se di grandissime dimensioni, naturalmente grazie a investimenti adeguati, e altre che resistono al cambiamento, pretendendo che sia lo Stato a compensare i costi di trasformazione. La buona notizia è che sia la finanza italiana sia quella internazionale sta andando in direzione della sostenibilità. Chi finanzierebbe oggi d’altronde aziende che producono suv diesel? Sempre più la scelta a favore dell’ambiente è anche una scelta economica. Nonostante questo, sento ancora molti opinionisti porre domande vecchie su questo tema, che in realtà il mercato sta risolvendo per conto suo.
Anche nella società sembra essere esplosa una voglia di sostenibilità. Secondo lei è transitoria? Produce cambiamenti nei comportamenti reali?
Il desiderio di sostenibilità è forte ed è cresciuto con il covid-19, come appare evidente da tutte le indagini demoscopiche. È vero però che quando si tratta di cambiare stile di vita e fare scelte che toccano il portafoglio le cose cambiano. Tuttavia, quello che già osserviamo nelle città, l’uso della nuova mobilità sostenibile (bicilette, monopattini, ecc.) racconta di un scelta profonda delle nuove generazioni. Le indagini ci dicono che la resistenza al cambiamento non viene dalle donne e dai giovani, ma dagli uomini adulti, spesso con posizioni di potere, molto più refrattari a cambiare cultura.
Quanto è importante l’introduzione di un reddito minimo per far sì che la gente possa cambiare vita?
Come ministro mi ero battuto per creare il Sostegno per l’inclusione attiva, da cui sono poi derivati il Reddito di inclusione e il Reddito di cittadinanza: dunque, ovviamente sono d’accordo nell’immaginare un reddito minimo per chi è in condizione di povertà. Ma il punto non è solo il reddito – e questo è l’errore della misura attuale, il Reddito di cittadinanza, per come è stata realizzata – occorre dare anche servizi di varia natura all’intero nucleo familiare, e infatti noi parlavamo di inclusione attiva. Non basta un sussidio se questo poi non crea nuove opportunità. Naturalmente qui c’è la responsabilità della politica nazionale, ma anche di quelle regionali, nel non aver realizzato un sistema per le politiche attive degno di un paese avanzato come l’Italia. Tuttavia, vorrei ricordare che proprio noi, insieme al Forum Disuguaglianze e Diversità, abbiamo proposto il Reddito di emergenza messo in campo questi mesi, per offrire un sostegno a chi era rimasto fuori da tutti gli altri sussidi.
Gli Extinction Rebellion, così come i Fridays for Future, supportati da dati e report scientifici, parlano di fine sicura e di estinzione. Come fare di fronte alla drammaticità di ciò che sta accadendo trovando ragioni di speranza?
La racconto una cosa di me. Nel 1976 decisi di fare l’economista leggendo testi che dicevano appunto ciò che sarebbe accaduto oggi. Lo sappiamo da cinquanta anni, tanto che ricordo che “I limiti della crescita” parlava di un scenario con una popolazione che arrivava a 8 miliardi nel 2030 e poi scendeva a 6 miliardi nel 2100 proprio a causa del collasso del sistema umano. E stiamo esattamente qui, sull’orlo di un potenziale collasso: per questo abbiamo bisogno di accelerare in modo straordinario il cambiamento ed è per questo che mi sono impegnato a creare l’ASviS. Vorrei ribadire che senza la Commissione europea guidata da Ursula von der Leyen difficilmente si sarebbe fatta quella sterzata, necessaria già cinque anni fa, quando la Commissione europea non prese davvero seriamente gli obiettivi dell’Agenda 2030. Oggi si parla invece di vulnerabilità e resilienza trasformativa. E dico anche che un ruolo, nonostante tutto, l’ha avuto il covid-19, senza il quale staremmo ancora a parlare di decimi di Pil e cose simili. Infine voglio ricordare l’importanza della formazione: e per questo ASviS ha messo sulla piattaforma di formazione dei giornalisti il corso “L’Agenda 2030 e gli obiettivi di sviluppo sostenibile”, corso che viene dato gratuitamente anche a tutti i docenti di ogni ordine e grado e a tantissimi studenti universitari.
Pubblicata sul Fatto Quotidiano il 29 settembre 2020