Coprirà l’energia necessaria per i trasporti pesanti, per l’industria, specie siderurgica, per bilanciare i sistemi elettrici basati sulle rinnovabili. Tutto questo, in teoria, senza produrre emissioni e consentendo all’Europa di raggiungere i suoi obiettivi di riduzione delle emissioni, di recente alzati al 55% entro il 2030. Parliamo dell’idrogeno, la nuova carta che, appunto, l’Unione Europea vuole assolutamente giocare per decarbonizzare la sua economia: 1 milione di tonnellate di idrogeno rinnovabile entro il 2024 e 10 milioni di tonnellate di idrogeno entro il 2030: questi gli ambiziosi obiettivi che si leggono nel documento Strategia europea dell’idrogeno, presentato dalla Commissione Europea.
Sulla scia dell’Europa anche il nostro paese – lo ha fatto il ministero per lo Sviluppo Economico – ha stilato una sua strategia nazionale per l’idrogeno, con due date chiave: il 2030, anno in cui l’idrogeno, destinato ai trasporti pesanti, ai treni che ancora vanno a diesel fino al settore petrolchimico, dovrebbe soddisfare il 2% della domanda energetica nazionale. E il 2050, dove l’idrogeno dovrebbe arrivare a coprire il 20%, evitando fino a 8 milioni di tonnellate di emissioni di CO2 e producendo 200.000 posti di lavoro (e un aumento del Pil di 27 miliardi).
Una soluzione vera, anche per l’Ilva
Ma davvero l’idrogeno può essere la chiave della transizione verde? “Sì, l’idrogeno può aiutarci a risolvere molti problemi sia nella fase di passaggio dal fossile al rinnovabile, sia a regime, quando avremo il cento per cento di rinnovabili”, spiega Francesco Ferrante, vicepresidente di Kyoto club, organizzazione non profit nata nel 1999. “Ci sono infatti alcuni settori, come ad oggi il trasporto pesante, o l’industria – i cosiddetti settori “hard to abate” – in cui l’idrogeno può essere il futuro. Si pensi ad esempio alla produzione di acciaio, su cui si sta lavorando nel nord Europa e che in prospettiva può essere soluzione assai interessante per l’Ilva di Taranto. Inoltre l’idrogeno può funzionare come stoccaggio, compensando l’intermittenza anche stagionale di eolico e fotovoltaico”. La prospettiva appare dunque positiva, ma tutti gli esperti concordano: perché questa tecnologia consenta al nostro paese di essere in linea con gli obiettivi di decarbonizzazione previsti dal Piano Nazionale integrato Energia e Clima (Pniec), occorre che l’idrogeno, che non si trova in natura, sia ricavato unicamente tramite elettrolisi alimentata da energie rinnovabili. E non da fonti fossili, gas compreso, come accade invece oggi, visto che l’idrogeno è ancora prodotto prevalentemente da combustibili fossili, con conseguente rilascio di 70-100 milioni di tonnellate di CO2 in Europa.
Se l’Europa apre all’idrogeno blu
Nel suo documento, per la verità, l’Unione europea prevede due fasi: quella di transizione, in cui si utilizza l’idrogeno “low carbon” o idrogeno blu, ottenuto dal gas naturale e combinato con lo stoccaggio della CO2, e quella invece in cui sarà a regime l’idrogeno verde. Lo stesso documento italiano lascia aperta la strada all’idrogeno prodotto da gas, dove dice che “la produzione nazionale di idrogeno verde potrebbe essere integrata con altre forme di idrogeno a basse emissioni di carbonio, ad esempio l’idrogeno blu”.
Non a caso il tema dell’idrogeno sta interessando le grandi aziende italiane leader nel settore energetico, come Snam, leader italiana nelle infrastrutture energetiche. Proprio Snam ha supportato, insieme ad altre aziende straniere, l’iniziativa Green Hydrogen Catapult che consentirà di arrivare a una capacità produttiva idrogeno verde entro il 2026 di 25 gigawatt. Oltre che di abbattere i costi, come ha spiegato l’amministratore delegato di Snam Marco Alverà, autore, tra l’altro, di un romanzo per ragazzi – Zhero. Il segreto dell’acqua (Salani) – che ha come tema proprio l’idrogeno. E anche le due partecipate Enel ed Eni stanno lavorando per sviluppare due progetti pilota per fornire idrogeno verde – attraverso elettrolizzatori alimentati da energia rinnovabile – a raffinerie individuate da Eni.
Tuttavia, è proprio il margine lasciato a un possibile utilizzo dell’idrogeno blu, magari eventualmente attingendo ai fondi del Recovery Plan, che suscita i dubbi di esperti e ambientalisti. “L’opzione della miscelazione di quantità progressivamente crescenti di idrogeno con il metano potrebbe essere utile per contribuire nel tempo alla decarbonizzazione utilizzando le reti esistenti ma bisogna essere molto chiari, l’idrogeno previsto dalla Commissione Europea, e finanziato, è esclusivamente quello verde”, spiega Livio De Santoli, professore ordinario e delegato per l’energia della Sapienza di Roma e presidente del coordinamento Free, l’associazione delle associazioni dell’energia pulita e del risparmio energetico. “Tutti i programmi, d’altronde, sono oggi finalizzati a risolvere l’enorme problema del cambiamento climatico: l’idrogeno è un elemento chiave della transizione ecologica e così va usato, inserendolo all’interno di politiche di decarbonizzazione”. Aggiunge dubbi anche lo stesso Ferrante: “Quello dell’idrogeno blu è un chiaro stratagemma delle grandi aziende fossili per continuare a fare ‘business as usual’, continuare cioè come sempre. Parlo ad esempio di Eni, che formalmente non è contro le rinnovabili, ma spinge per l’idrogeno blu. Ma l’idrogeno non può essere il cavallo di Troia per continuare con l’estrazione da fonti fossili: servono paletti certi”.
I costi, falso problema
I fautori dell’idrogeno blu come tecnologia di transizione mettono in luce gli alti costi che ancora esistono per produrre idrogeno verde. Ma anche su questo gli esperti non sono d’accordo. “Per quanto riguarda l’alto costo dell’idrogeno verde rispetto a quello prodotto con i fossili, va detto che esiste, sì, un gap da scontare, di circa quattro o cinque euro al chilogrammo, ma questo gap è ‘drogato’: infatti in questa differenza non viene considerato il costo associato all’inquinamento, che si traduce in costi sanitari e ambientali anche rilevanti. Inoltre parte del Next Generation Eu potrebbe incentivare questo disavanzo, almeno per i primi 3-4 anni, fino a quando cioè lo sviluppo della tecnologia non avrà più bisogno di incentivi”, spiega De Santoli. “L’andamento del costo del fotovoltaico e delle batterie dimostrerà che è l’idrogeno verde è un obiettivo perseguibile e che nel momento in cui diventerà produzione di massa l’obiettivo di avere costi competitivi è più che praticabile”, nota Ferrante.
Ciò che manca, semmai è altro: una programmazione industriale chiara, così come un investimento sulla filiera. “Diciamo la verità: l’Italia sull’idrogeno se la sta prendendo comoda, nonostante ci sia un’urgenza assoluta. Se non investiamo finiremo per comprare gli elettrolizzatori in Cina. E anche sulla ricerca Germania investe sulla ricerca dell’idrogeno un miliardo all’anno da quindi anni, da noi l’investimento è zero, anche se il ministero ora prevede un miliardo in dieci anni. Comunque, del tutto insufficienti”, conclude De Santoli. E poi c’è il problema dei progetti presentati per il Recovery Plan, che sarà uno dei modi in cui l’idrogeno sarà finanziato. Progetti ancora vaghi visto che, a differenza della Francia, non c’è scritto ancora come i fondi saranno spesi. E la vaghezza aumenta il pericolo principale, ossia appunto che il business diventi l’idrogeno blu – non pulito, a dispetto del nome – e non quello verde. L’unico utile ai fini del problema più grande, quello del contrasto al cambiamento climatico.
Pubblicato sul Fatto Quotidiano
Foto di Erich Westendarp da Pixabay