L’altro giorno sulla chat del calcio è arrivato un messaggino allarmato. G. non aveva più ritrovato le sue scarpe. Di primo acchito ho pensato che i genitori sarebbero stati scocciati, ma nulla di più. Poi però quando ho visto la foto della scarpa, messa sempre in chat, presa da un sito e lasciata un po’ sciattamente con il prezzo, ho capito che probabilmente quei genitori sarebbero stati ben più che scocciati: perché quelle scarpe da ginnastica, quelle che si mettono tutti i giorni per calpestare la terra, le pozzanghere (e lo sporco di Roma, in questo caso) costavano 400 euro.
Quali scarpe sono etiche?
Si è aperta un’accesa discussione con mio figlio sull’eticità di scarpe da ginnastica da 400 euro (e sulla stupidità di lasciare gli spogliatoi aperti come negli anni ‘50 quando i ragazzini avevano solo pantaloncini e maglietta e non andavano in giro vestiti con centinaia e centina di euro addosso tra vestiti e smartphone). Non una discussione nuova, visto che mio figlio, come tutti i teenager, parla sempre e soprattutto di una cosa: scarpe da ginnastica. Specie quelle costose, costosissime.
A suo avviso era una cosa normalissima avere scarpe da 400 euro: «Se i genitori hanno i soldi e vogliono comprare quelle scarpe non c’è problema». Dal mio punto di vista non era così, e gli ho spiegato anche che probabilmente quelle scarpe erano fatte da ragazzini come lui in Paesi poverissimi sommersi da alluvioni ricorrenti.
Ma la mia argomentazione era debole, perché nel mondo della sneaker tutto è relativo: da 200 euro sarebbero etiche? E quelle da 150 che lui aveva ai piedi mentre parlavamo lo erano?
Un indumento feticcio, dal valore religioso
Combattere la battaglia per delle scarpe da ginnastica umane, ovvero aderenti al reale, con un costo non troppo distante da quello speso per produrle e anche adeguate anche ai nostri stipendi, è una battaglia persa. Perché, anche se ormai le scarpe da ginnastica le portano tutti (anche le signore sotto il cappotto, quelle signore che un tempo avevano ancora eleganti scarpe col tacco e ora invece sono a terra come tutti), le grandi aziende – a partire dalla Prima Grande Azienda di Scarpe da Ginnastica Del Mondo (tallonata dalla Seconda Grande Azienda di Scarpe da Ginnastica del Mondo) – hanno puntato tutto su di loro: iragazzi, quelli a cui tra l’altro, nota non da poco, il piede cresce costantemente. Quelli che, anche, spesso e volentieri giocano a calcio e dunque oltre alle scarpe comprano anche scarpini.
Attraverso un marketing martellante, che passa soprattutto sponsorizzazioni di sportivi dai redditi milionari, ma anche collaborazioni con cantanti famosissimi, le hanno rese non più un oggetto che serve per camminare (o calciare) ma un vero e proprio feticcio, un oggetto simbolo, dal valore quasi religioso, delle giovani generazioni. “Porto queste scarpe dunque sono”.
E infatti quando chiedo a mio figlio di spiegare perché siano così importanti mi risponde senza mezzi termini “perché con le scarpe costose uno accentra l’attenzione su di sé, crea uno stile. E poi molti si appassionano, le collezionano, come le carte Pokemon”. Scarpe da collezionare come carte, scarpe che nulla, appunto, hanno più a che fare con la loro funzione.
Sneaker insostenibili. E guai a riciclarle
Nel libro Lavorare con i piedi. Ciò che le tue scarpe stanno facendo al mondo (Einaudi, 320 pagine, 19 euro), la giornalista Tansy E. Hoskins racconta il viaggio delle scarpe da ginnastica, progettate magari a Londra, fatte in una fabbrica in Bangladesh con materiali cinesi e indiani, vendute negli Usa e destinate, per il 90% alle discariche.
Sono 23 miliardi le scarpe da ginnastica prodotte ogni anno, un numero che aumenterà incessantemente, proprio grazie al fatto che queste scarpe invecchiano prestissimo, visto che le aziende innovano costantemente le loro linee. Solo le scarpe rappresentano l’1,4% delle emissioni globali, e visto che per farle si usa anche colla o plastica sono scarsamente sostenibili o riciclabili. Certo, molti brand stanno andando verso materie eco-compatibili, scarpe vegan, in gomma riciclate, senza colla. Esiste anche una app – Good on you – nella quale si può inserire il nome dell’azienda e avere un punteggio di sostenibilità della scarpa. Peccato però che i prezzi delle scarpe sostenibili siano simili o quasi a quelli di quelle insostenibili.
Manca, però, ancora, una filiera del riciclo vera e propria ed è facile capire perché. È quella che le aziende temono di più, perché la scarpa sostenibile la puoi comunque vendere, quella usata no. Esiste, è vero, una serie infinita di siti/persone che comprano scarpe per poi rivenderle, ma solo per rivenderle di più, perché spesso vengono personalizzate e, appunto, aumentate di prezzo. Nulla a che vedere, insomma, con la circolarità (un giorno ho trovato una chat di mio figlio dodicenne che scriveva a un tizio di uno di questi siti che gli spiegava perché le scarpe costavano così etc. Oggi basta un telefono e whatsapp per entrare in contatto con quasi bambini e fare marketing diretto).
Più che la scarpa vegan, serve decolonizzare un immaginario
Il risultato di tutto ciò è soprattutto uno: gli utili delle aziende di scarpe volano, il mondo è invaso e inquinato da miliardi di scarpe da ginnastica che finiscono in discariche spesso delocalizzate e una buona quota di bambini che pure poveri non sono frustrati dall’impossibilità di comprare quelle più costose. Perché quando un ragazzino arriva con nuove, costosissime, scarpe a scuola si scatena la gara per cercare di capire come le ha avute, chi gliele ha regalate (in genere, molto spesso, i nonni, che ormai devolvono un decimo della loro pensione a comprare scarpe da ginnastica ai nipoti). Ma chi non può permettersele, resta deluso e arrabbiato, e torna a casa polemizzando, rilanciando, implorando.
Insomma una perfetta istantanea, e non certo felice, del nostro Pianeta in questo momento. Per cambiare le cose, onestamente, non ci servono, o ci servono poco, le linee vegan e gli slogan di sostenibilità delle aziende. Ci serve decolonizzare un immaginario fatto di calciatori e rapper milionari, ci serve scardinare l’equazione scarpa da 400 euro = felicità e per farlo dobbiamo opporre probabilmente non tanto un divieto, ma un modello alternativo e low cost di gratificazione, come quello delle relazioni felici, come spiega Stefano Bartolini nel suo Ecologia della felicità (Aboca, 352 pagine, 24 euro).
Perché, al di là del facile biasimo a quei genitori (tutti noi) che pure si prestano ad acquisti che fanno male non solo ai propri figli ma, io credo a tutti, servirebbe che noi adulti per primi credessimo più nella felicità dei rapporti che in quella che possono darci degli oggetti. Certo, per noi l’equivalente di scarpe da 400 euro potrebbe essere, a esempio, un bel check up sanitario, così come un abbonamento alla palestra con la spa oppure, anche, una costosa psicoterapia o una vacanza. Cose più immateriali, certamente, ma che fanno pur sempre parte di un “capitalismo” dei servizi, della salute e della cultura magari più nobile e certamente meno accentratore nelle mani di poche aziende, ma che rientra nella stessa logica simbolica delle scarpe.
Insomma la sfida è scardinare il sistema che ha reso tutto un consumo, dalla sneaker alla manutenzione del corpo e della psiche. Non è facile. Ma da qualche parte dovremo pur cominciare, prima di essere sommersi da temperature torride, alluvioni. E, soprattutto, montagne e montagne di scarpe da ginnastica che, prima o poi, i Paesi più poveri cominceranno, legittimamente, a rimandarci indietro.
Pubblicato su La Svolta.it
Foto di 👀 Mabel Amber, who will one day da Pixabay