Lo hanno detto in molti: questa pandemia, pur nella sua tragicità, ha fatto bene all’ambiente. Lo hanno capito i cittadini, che hanno sentito l’aria più pulita e le città più belle. Lo sanno bene quelli che di ambiente e clima si occupano per lavoro. E che, purtroppo, sanno anche che due mesi di lockdown, per quanto riguarda l’arretramento delle emissioni e del riscaldamento globale, sono una goccia (pur fredda) nel mare.
Ma sono altrettanto convinti che se alcune modalità di vivere e lavorare durante la chiusura hanno prodotto un beneficio ambientale, di cui abbiamo drammaticamente bisogno, esse devono essere non solo implementate ma rese strutturali. Specie come, nel caso dello smartworking, ci siano praticamente solo vantaggi: le aziende hanno constatato che il temuto calo di produttività non c’è stato, i lavoratori hanno potuto lavorare con meno stress, le famiglie sono rimaste più unite.
Insomma, lo smartworking sembra davvero essere un raro esempio di (de)crescita felice, che consente all’ambiente di respirare e a noi di stare meglio. E quindi dobbiamo tenercelo strettissimo. Ecco perché considero due polemiche sul tema che sono state fatte rispettivamente dal giuslavorista Pietro Ichino e poi dal sindaco di Milano Giuseppe Sala assolutamente sbagliate e dannose. Non tanto nel merito, quando nei modi dell’esternazione e anche nel momento in cui sono state fatte.
Ma ancor prima vorrei fare una premessa: non considero sensato né valido qualunque tipo di discussione su vantaggi e svantaggi dello smartoworking che non prenda in considerazione come premessa l’assoluto beneficio ambientale che scaturisce da questa modalità di lavorare e produrre. Abbiamo pochi strumenti per rovesciare le sorti del pianeta che si va riscaldando e quelli che abbiamo li dobbiamo proteggere al massimo, non attaccarli.
La dichiarazione di Pietro Ichino – “lo smart working per i dipendenti pubblici è stata una vacanza” – è stata travolta da un’ondata di reazioni e di critiche. Comprensibili. Voglio chiarire che sul punto Ichino non aveva tutti i torti, nel senso che purtroppo è vero che parte della pubblica amministrazione ha smesso di funzionare, con grave disagio per gli utenti specie i più fragili. È vero che, soprattutto, la pubblica amministrazione non era assolutamente pronta, colpevolmente, a quanto è accaduto e ha dovuto colmare un divario enorme.
È probabile che molti dipendenti abbiano lavorato meno ma il punto non è questo: primo, ma non è la prima volta che Ichino su questo sbaglia, non puoi attaccare i lavoratori vertici e la struttura che non hanno messo in grado i lavoratori di funzionare. Secondo, in questo modo si attacca lo smart working e lo si svaluta, proprio in un momento in cui invece sarebbe fondamentale, anche, ripeto, per la sopravvivenza ambientale e la sostenibilità delle città. Dunque, la dichiarazione era fuori luogo, così come è stata fatta.
Allo stesso modo ha sbagliato il sindaco Sala, che ha detto “basta smartworking, torniamo a lavorare, perché l’effetto grotta in cui stiamo a casa e prendiamo lo stipendio ha i suoi pericoli”. Può sembrare una battuta, ma è una battuta che dimostra la scarsa consapevolezza di cosa sia davvero il lavoro agile. Non un pallido sostituto del lavoro “vero”, ma lavoro vero e proprio, semplicemente secondo altre modalità. Un modello che in Europa ormai è ampiamente sviluppato.
Inoltre, di nuovo, con questa frase Sala sembra dire che i suoi dipendenti non hannolavorato, insinuando anche che in molti ci sia stata la tentazione di non fare nulla pur prendendo lo stipendio. Non è corretto, soprattutto è sbagliato. Sala su questo dimostra di essere un dinosauro, altro che sindaco green.
In altre parole, il problema non è lo smartowrking ma come lo si fa e questo è persino banale dirlo. Ma quello che stupisce è che abbondino nel nostro paese dichiarazionida parte di professori o istituzioni che parlando del tema dimentichino il beneficio ambientale. Questo non può esistere, non è tollerabile. Lo smartworking rappresenta una flebile speranza in un quadro a tinte fosche.
Una speranza non solo di una diminuzione delle emissioni, ma anche di maggiore felicità per i lavoratori, che potrebbero avere città sostenibili ma soprattutto – da non sottovalutare – la possibilità di spostarsi, magari in aree rurali abbandonate da anni. In questa pandemia tutti abbiamo avuto modo di capire quanto la natura sia fondamentale. Molti vorrebbero andare via dalle città, vivere in campagna, non a caso crescono le quotazioni di case fuori città e calano le altre.
L’unico ostacolo è il lavoro, appunto (e le scuole, ma quelle sono ovunque). Lo smartworking è l’unica cosa che può portare alla ripopolazione delle zone abbandonate del nostro territorio, come gli Appennini, con benefici enormi sia per chi ci va a vivere – pensiamo ai bambini, che in città si ammalano di bronchiti o peggio – sia per il territorio stesso.
E forse quello che dicono molti studi, che a mio avviso non tengono in considerazione molti fattori, e cioè che nel 2050 vivremo tutti nelle metropoli, potrebbe non essere un destino. La qualità di vita nelle città si è drasticamente abbassata, specie per i più fragili. Le soluzioni per renderle vivibili ci sono, i corridoi verdi, i boschi sui tetti, ma a volte sembrano più progetti di architetti brillanti che ipotesi realistiche, visti i fondi delle nostre città che non hanno neanche i soldi per falciare l’erba.
Mentre i progetti avveniristici sono spesso destinati alla fascia più ricca della popolazione, come i famosi grattacieli verdi con tecnologie avanzate, sauna e portieri in livrea. No, non è di questo che abbiamo bisogno, ma magari, molto più semplicemente, di vivere in una casa con aria non inquinata, un giardino, un pezzo di bosco. E l’unico modo di farlo, per quella fascia di lavoratori che può, ovviamente, è lo smartworking. Chi parla di lavoro agile, dunque, dovrebbe essere consapevole di tutto questo.
(ilfattoquotidiano.it)
Foto di Bich Tran per Canva