Psicofarmaci, ecco perché danneggiano il cervello
Depressione grave, mania, psicosi, violenza, idee di suicidio. Sono alcune delle conseguenze che possono scaturire dalla sospensione di un trattamento con psicofarmaci. A sostenere queste tesi è lo psichiatra statunitense Peter R. Breggin nel libro La sospensione degli psicofarmaci. Un manuale per i medici prescrittori, i terapeuti, i pazienti e le loro famiglie (tradotto dalla farmacologa Laura Guerraper la casa editrice Giovanni Fioriti). Breggin, medico e ricercatore, da molti anni sulla scena della psichiatria americana, ha fondato nel 1972 l’International Center for the Study of Psychiatry and Psychology. Perito medico in moltissimi processi contro le cause farmaceutiche, ha scritto libri celebri, come Medication Madness (sul legame tra psicofarmaci e crolli emotivi, suicidi e atti violenti), The Ritalin Fact book (sul controverso farmaco somministrato ai minori), Reclaiming our children(sull’iperdiagnosi dell’Adhd sui bambini e l’uso di farmaci), Toxing Psychiatry (sul valore terapeutico della psicoterapia rispetto a psicofarmaci ed elettrochoc).
La falsa teoria dello squilibrio chimico e l’effetto degli psicofarmaci – Punto di partenza di Breggin è il modo in cui gli psicofarmaci agiscono sul cervello e le loro conseguenze. Per lo psichiatra americano essi non intervengono sui problemi psichici, determinati unicamente dal vissuto delle persone, ma solo sui loro sintomi, e in modo molto aspecifico. I disturbi mentali non hanno cause organiche e infatti, dice lo psichiatra americano, non è mai stata confermata l’origine genetica dei disturbi né la teoria del famoso “squilibrio chimico”, sfruttata invece dalle case farmaceutiche per giustificare l’uso degli psicofarmaci, in particolare gli antidepressivi, prescritti per presunti livelli bassi di serotonina dei malati mai dimostrati. “Invece di riequilibrare uno scompenso che non esiste”, spiega la farmacologa Laura Guerra, “gli psicofarmaci creano loro stessi uno squilibrio, che spinge il cervello a mettere in atto meccanismi di compensazione per opporsi al cambiamento indotto dal farmaco, che quindi altera l’assetto neurotrasmettitoriale. Il cervello si trova dunque in uno stato alterato”.
Se l’effetto rebound è interpretato come aggravamento – In questi casi ci sono due possibilità. La prima è sospendere lo psicofarmaco. Se ciò avviene troppo velocemente, però, il cervello fa fatica a ritornare al suo stato di equilibrio precedente in maniera rapida e quindi si può avere uno scompenso fortissimo, con una ricaduta devastante sia a livello psicologico che fisico, il cosiddetto “effetto di rimbalzo” o rebound. Il problema ulteriore è che i sintomi psicologici e fisicispesso non vengono riconosciuti come un effetto della sospensione del farmaco, ma vengono spesso erroneamente diagnosticati come un peggioramento dello stato psichico della persona, a cui vengono aggiunti altri farmaci. L’alternativa alla sospensione del farmaco è il trattamento a vita, “giustificato solo dall’inesperienza di molti psichiatri a gestire una sospensione dei farmaci in modo sicuro e confortevole”. Tanto è vero che ormai gli psicofarmaci vengono assunti dalle persone per anni, nonostante sia dimostrato che il trattamento a lungo termine porti più danni che benefici.
L’effetto “incantesimo del farmaco” e gli effetti di antidepressivi e antipsicotici – Nel libro, Breggin spiega come non solo la sospensione, ma anche l’assunzione prolungata di psicofarmaci induca un malfunzionamento cronico del cervello, cioè una cronicizzazione dei disturbi e anche alla comparsa di nuovi. Inoltre si può assistere a un grave peggioramento emotivo (o “disregolazione affettiva”). Un ultimo effetto del malfunzionamento cerebrale cronico è l’“anosognosia” (o anche medication spellbindig, incantesimo del farmaco), in altre parole l’incapacità dei pazienti di riconoscere gli effetti negativi e avversi che stanno subendo a causa degli psicofarmaci.
Più in particolare, Breggin analizza gli effetti negativi di ogni categoria di psicofarmaci. Studi sugli antidepressivi mostrano come essi comportino anomalie mentali e comportamentali, insonnia, ansia, agitazione, impulsività, aggressività, violenza, idee di suicidio, insonnia e per questo gli antidepressivi sono spesso associati alle benzodiazepine. Questi farmaci possono, in una certa percentuale di casi, causare uno stato di ipomania o mania che se non diagnosticato come effetto collaterale del farmaco fa scattare la diagnosi di disturbo bipolare e quindi spinge i medici a trattamenti farmacologici che a volte diventano veri e propri cocktail, con l’aggiunta di antipsicotici e stabilizzatori dell’umore.
Studi condotti sugli antipsicotici, prosegue Breggin, hanno invece mostrato che questi farmaci possono condurre ad una atrofia cerebrale e alla demenza. “Non solo”, spiega Guerra. “Ci sono altri pesanti effetti collaterali, anche irreversibili, come la discinesia tardiva, che coinvolge i muscoli della faccia e degli arti, l’acatisia tardiva, che produce un profondo e insopportabile stato di agitazione. Per non parlare della sindrome metabolica, che porta all’aumento del peso, fino al diabete”.
Benzodiazepine, litio e stimolanti – Le benzodiazepine diminuiscono effettivamente l’ansia, ma dopo poche settimane creano assuefazione e tolleranza, il che significa che il paziente ha bisogno continuo di aumentare le dosi per avere lo stesso effetto. Un uso cronico rende inoltre la sospensione complicata. Inoltre, significativi studi mostrano come l’uso prolungato possa essere associato all’insorgenza di demenza e Alzheimer. Il litio, invece, anche se citato come stabilizzatore dell’umore molto efficace, è neurotossico, e può provocare danni alla tiroide e paratiroidi, oltre a disturbi renali anche gravi. Infine ci sono gli stimolanti, usati per il trattamento della sindrome da deficit dell’attenzione e iperattività (ADHD), sempre più diagnosticata tra i bambini. Questi farmaci sono somministrati perché aumenterebbero la concentrazione, quando in realtà, spiega Breggin, inducono una sorta di disturbo ossessivo compulsivo. Inoltre agiscono sopprimendo il comportamento spontaneo del bambino, creando il cosiddetto effetto zombie. Non solo. Possono indurre, come gli antidepressivi, mania e ipomania, facendo scattare la diagnosi di disturbo bipolare che a sua volta porta alla somministrazione di altri farmaci.
L’approccio collaborativo centrato sulla persona – Per tutti questi motivi, spiega Breggin, è fondamentale prendere in considerazione la sospensione dei farmaci. Nel libro, Breggin presenta il suo “approccio collaborativo centrato sulla persona”, un metodo che vede la collaborazione di diverse figure, compresi i familiari e la rete sociale del paziente. Secondo lo psichiatra, esso è capace di minimizzare gli effetti della sospensione, come idee di suicidio, aggressività, violenza, psicosi anche molto dolorose. Breggin spiega che tale processo deve essere molto lento e graduale, in modo da lasciare tempo al sistema nervoso di ripristinare la sua situazione di equilibrio. Le percentuali di scalaggio devono dunque essere minime e quando si intraprende la riduzione successiva non bisogna avere sintomi di astinenza in atto, e comunque occorre aspettare due o tre settimane dopo ogni riduzione. Nel caso di multiterapia, lo psichiatra consiglia di togliere uno psicofarmaco per volta, in modo da riuscire a capire se gli effetti collaterali sono, ad esempio, dovuti ad un psicofarmaco oppure all’altro. La sospensione può portare tuttavia anche a crisi di tipo emotivo. Poiché lo psicofarmaco produce un distacco emotivo, quando viene sospeso c’è il rischio che riemergano i problemi che il farmaco attutiva. Queste reazioni vanno tenute sotto controllo attraverso la psicoterapia. “In ogni caso”, conclude Breggin, “il protocollo va adattato alla persona. L’importante è che il paziente sia al centro delle decisioni e responsabilizzato. E che tutta la sua famiglia e la sua rete sociale siano coinvolte”.(Pubblicato sul Fattoquotidiano.it 25 ottobre 2018)