John è arrivato che io avevo perso il lavoro in una piccola azienda. Eppure l’errore più grande che si possa fare è credere che per ospitare un rifugiato occorra essere benestanti. Non per i 350 euro al mese che ti danno, ma perché la motivazione che questi ragazzi ti trasmettono diventa energia in più”. Daniele vive a Bologna con la moglie e due figli. Dice che la molla gli è scattata vedendo l’ennesimo, tragico reportage fotografico di padri siriani con i figli morti in braccio. Così si rivolge alla cooperativa Camelot, che gestisce il Progetto Vesta – ideato all’interno del Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati (SPRAR)- che gli assegna un ragazzo ghanese di 18 anni. “È entrato con due magliette e un paio di scarpe la voglia di poter mandare la sorella a scuola. Oggi con poche decine di euro riusciamo a finanziare la scuola a lei e al fratellino, perché quando tiri su una persona tiri su anche la sua famiglia”. Di John, che lavora nell’edilizia (“tutte le mattine gli preparavamo la schiscetta”), Daniele ricorda l’iniziale paura a prendere sonno, e quella volta che si bloccò vedendo una foto di un camion del deserto, “mi ha spiegato che chi si addormentava e cadeva veniva lasciato morire”. Ma ci sono anche episodi divertenti, come quando lo vide aggirarsi come un rabdomante per la casa con un cellulare in mano. “Stava facendo vedere l’appartamento alla sua famiglia, dall’altra parte si vedevano solo occhi e denti bianchi. Erano completamente al buio”. Oggi ospitare un rifugiato in famiglia, proprio come se fosse un figlio in più, si può fare, anche se ancora non su tutto il territorio nazionale. Le associazioni attive su questo fronte sono tante, a cominciare dal Rifugio diffuso del Comune di Torino (finora 171 i titolari di protezione internazionale ospitati); c’è lo SPRAR, appunto, che è la rete di accoglienza integrata e diffusa gestita dai Comuni italiani (82 rifugiati in famiglia), con il progetto Vesta del Comune di Bologna (21 famiglie) e con la Ciac Onlus (progetto “Chi bussa alla mia porta”). E poi ci sono i comuni di Milano, Firenze, Roma, con l’assessora ai Servizi Sociali che ha dichiarato di recente la disponibilità ad avviare una sperimentazione. In tutti questi casi è previsto un rimborso spese di circa 300 euro, che è calcolato scorporando dalla quota per ogni persona accolta (35 euro) ciò che rimane alle associazioni per garantire i servizi, così come i 2,5 euro al giorno per le piccole spese personali dei rifugiati. Ma a rendere possibile l’ospitalità in famiglia c’è anche la Caritas con il progetto “Rifugiato a casa mia” (ad oggi 115 migranti), così come la piattaforma Refugees Welcome, con 35 progetti in corso e 600 famiglie iscritte. In questi casi non c’è rimborso, ma – spiegano dall’associazione – “aiutiamo le famiglie a lanciare un crowdfunding, funziona benissimo”. “Una persona in più non costa nulla, basta aggiungere un etto di pasta e avere una stanza in più”, spiega Elvira, che con il marito gestisce una sala da the a Macerata. La sua famiglia ospita Mamadou, arrivato dal Gambia e passato anche lui per la trafila angosciante del deserto e dei barconi. “In Libia li ammassano per venti giorni in un capannone a pane e acqua, perché pesino meno quando salgono sui barconi”, racconta Elvira. Che poi parla di una convivenza andata benissimo, “anche se”, ride, “Mamadou si è dovuto adattare a una famiglia vegetariana”. I numeri dei rifugiati arrivati in famiglia sono ancora piccoli rispetto a quelli ospitati dagli enti locali della rete SPRAR (30.000 posti su quasi 120.000 mila arrivi per il 2017), ma la tendenza è in crescita. “Per i giovani migranti la vita in famiglia rappresenta l’ultimo segmento di un percorso che parte dai centri di accoglienza. Ma si tratta del segmento decisivo, prima che il ragazzo si ritrovi del tutto da solo”, spiega Carlo De Los Rios, amministratore delegato di Camelot. “Le famiglie vengono selezionate con dei colloqui per verificare che ci siano determinate condizioni, ad esempio che non credano di guadagnarci o prendersi un badante”, aggiunge Daniela Di Capua, direttrice del Servizio Centrale dello SPRAR. Ma chi sono, appunto, queste famiglie? In genere si tratta di coppie sui cinquanta, con figli fuori casa. Ma ci sono anche coppie con figli piccoli. Meno i single; uno di loro è Daniele, 29 anni, maître di sala in un ristorante in provincia di Cuneo, che ha accolto un ragazzo africano del Mali grazie all’associazione Welcome Refugee. “Ero abituato a ospitare amici. Allora mi sono detto, perché non un ragazzo che ha bisogno? Quando è arrivato M. friggeva qualsiasi cosa gli capitasse sotto mano, e mangiava tantissimo, come se avesse paura di non trovare più cibo. Poi certo, ci sono le differenze culturali, ad esempio lui non capiva perché la mia ragazza fosse stesa sul divano mentre io cucinavo. Ora siamo veri amici”. Questi ragazzi che arrivano hanno una fede intensa. Eppure questo non è stato un ostacolo per Marino – pensionato come la moglie, un figlio di trenta – che grazie all’associazione Ciac ha ospitato Maruf, un ragazzo afghano col padre ucciso dai talebani. “Che Maruf abbia fede è una bellissima cosa per noi, siamo cattolici praticanti. Ora lavora in una pizzeria, se riuscirà ad essere assunto lo aiuterò a trovare un appartamento. Ma qui può stare quanto vuole”. E infatti quello che quasi sempre capita è che dopo i cinque o sei mesi obbligatori, le famiglie continuano a ospitare questi ragazzi, che diventano quasi figli, che si fa fatica a lasciare andare. Ormai hanno un volto, una storia, non sono più numeri di fronte ai quali è facile restare indifferenti. La loro tragedia diventa la tragedia di coloro che li accolgono, che trovano energie e risorse inaspettate per aiutarli. Insomma l’ospitalità in famiglia sembra essere la quadratura del cerchio: abbassa il livello di razzismo, produce integrazione. Grazie al racconto di una storia dolorosa, condiviso davanti a un piatto di carbonara con chi credeva di aver paura di uno straniero. E oggi non ne ha più. Pubblicato su Il Fatto quotidiano.
Foto di Derick Santos