Vi sentireste sicuri se a scuola di vostro figlio, o nel vostro ufficio, non ci fossero estintori, né prove di evacuazione degli edifici? Sicuramente no. Probabilmente, invece, non fate caso se nella stessa scuola o ufficio ci sia o meno un defibrillatore.Eppure, mentre di incendio muoiono ogni anno circa 180 persone, le vittime di arresto cardiaco sono più di 60.000, 1 ogni 8 minuti e 45 secondi.
Tra queste, il 7% ha meno di 30 anni e il 3,5% meno di 8 anni, il che significa che ogni anno muoiono 4.200 giovani e ben 2.100 bambini, nel silenzio generale.
Il motivo per cui le vittime sono così numerose è soprattutto uno: l’assenza di defibrillatori semiautomatici (Dae) sul territorio. Ad oggi, infatti, i defibrillatori sono obbligatori solo nelle strutture sanitarie o sociosanitarie, nelle ambulanze, negli ambulatori pubblici e privati. Nessun obbligo, invece per scuole, aziende o associazioni, per le quali il defibrillatore è solo consigliato dal Ministero della Salute. Nulla viene detto, infine, per i condomìni, anche se è dimostrato che la maggior parte degli arresti cardiaci avviene, oltre che sul lavoro, a casa. Così come è dimostrato che il defibrillatore serva qualunque sia la causa delle anomalie cardiache (malattie elettriche, miocarditi, infarti o traumi toracici): in altre parole, salva anche chi soffre di infarti dovuti a malattie congenite che sfuggono ai controlli.
Decreto Balduzzi, troppi rinvii
Qualcosa è cambiato per gli atleti e chi fa attività sportiva nel 2017, quando finalmente è entrato in vigore il famoso decreto Balduzzi (2013), dopo ben cinque anni di proroghe. La legge prevede l’obbligo per le società e le associazioni sportive di avere un defibrillatore, anche se purtroppo, nella versione approvata dal Ministro della Salute Lorenzin, restringe l’obbligo di avere personale formato alle sole gare ufficiali.
“Ancora oggi”, spiega Mirco Jurinovich, Presidente della Onlus 60mila vite da salvare e da anni impegnato a diffondere la cultura del defibrillatore, “leggo numerose notizie di associazioni sportive che ricevono in donazione i prescritti defibrillatori e formano il loro personale all’utilizzo, evidenza del fatto che molte realtà sportive non si sono ancora messe in regola, anche se non ci sono notizie di indagati per omicidio colposo laddove si siano verificati decessi di atleti in impianti non dotati di Dae. Ma il problema sta soprattutto nell’eliminazione dell’obbligo di presenza di personale formato durante lo svolgimento degli allenamenti o gare non ufficiali, perché ciò significa che agli atleti tesserati non viene garantita la cardioprotezione durante i 2/3 dell’attività”.
Formazione, un obbligo solo italiano
Secondo la legge italiana solo le persone in possesso di uno specifico certificato possono usare i Dae. Ma a detta dei cardiologi dell’ultimo Congresso della European Society of Cardiology, che si è chiuso pochi giorni fa, questa misura andrebbe tolta perché la sua presenza riduce drasticamente le vite salvate. Lo spiega uno studio del Policlinico San Matteo di Pavia, a firma del cardiologo Enrico Baldi: i Dae sono troppo poco utilizzati, e questo nonostante il tentativo di far ripartire il cuore prima dell’arrivo di un’ambulanza aumenti il tasso di sopravvivenza dal 24% al 60% (quando c’è un arresto cardiaco per ogni minuto che passa si perde il 10% della possibilità di salvare la persona). Negli altri Paesi, ad esempio in Danimarca, Francia, Germania, Olanda, Svezia, Svizzera, Gran Bretagna, funziona diversamente. Lì l’utilizzo del defibrillatore è stato liberalizzato e ogni cittadino ‘laico’ è consapevole del fatto che in caso di emergenza può intervenire usando il defibrillatore più vicino.
“Questo significa”, continua Jurinovic, “che chi si recasse in Francia e nel Regno Unito potrebbe, in caso di necessità, utilizzare liberamente uno dei defibrillatori presenti nelle bacheche pubbliche mentre in Italia, senza un attestato di formazione riconosciuto (ottenuto quasi sempre a pagamento), nella migliore delle ipotesi dovrebbe avere l’autorizzazione telefonica dell’operatore 118, altrimenti dovrebbe limitarsi ad eseguire il massaggio cardiaco. Anche se, come recita l’art. 54 del codice penale – che autorizza chiunque a mettere in atto azioni salvavita in caso di pericolo di vita – non c’è nessuna conseguenza penale nel caso un qualsiasi cittadino non formato usi il defibrillatore”.
Ma allora perché il decreto che non prevede l’obbligo di personale formato negli allenamenti sarebbe sbagliato?
“È semplice. Se si inserisce l’obbligo di personale formato nelle gare si trasmette l’idea che solo chi è formato lo possa usare. Allora in quel caso bisogna prevedere sempre la presenza di qualcuno. Viceversa tutti dovrebbero essere informati circa la possibilità di usare un defibrillatore, mentre oggi la maggior parte della popolazione italiana pensa ancora che sia lo strumento che si vede nelle serie tv americane, quello con le due piastre da appoggiare sul torace. Non qualcosa che si può imparare prima con un semplice opuscolo, oppure seguendo le istruzioni del 118 in caso di emergenza”.
Emergenza scuole
Nonostante accada di frequente che una persona vada in arresto cardiaco in un luogo pubblico affollato, o per strada, non esistono nel nostro Paese né una mappatura nazionale accessibile al pubblico né percorsi segnaletici che conducano gli eventuali soccorritori ai defibrillatori presenti. L’altra emergenza sta nell’assenza di defibrillatori nelle scuole.
“Qui i giovani passano la maggior parte del tempo e per questo è così importante la loro presenza”, spiega Gabriele Bronzetti, cardiologo al Sant’Orsola di Bologna.
Cosa bisognerebbe fare, allora? “Anzitutto, andrebbe evitata la retorica dei fiori sul banco vuoto e lo stupore del ‘fino a un secondo prima la vittima stava bene’. Bisognerebbe invece che gli studenti apprendessero la cultura del primo soccorso e come utilizzare il defibrillatore su una persona col cuore fermo, nello stesso modo in cui sanno usare lo smartphone: è dimostrato che un dodicenne può manovrare un defibrillatore benissimo”.
Ma lo stesso vale per la rianimazione cardiopolmonare (una manovra temporanea e non risolutiva come il defibrillatore), tanto è vero che c’è un gruppo di medici bolognesi, coordinato dall’anestesista Federico Semeraro, che ha creato qualche tempo fa un videogame – ‘Relive’ – che attraverso la realtà virtuale e il rilevamento dei movimenti del giocatore insegna le manovre in maniera innovativa e divertente.
Buone sperimentazioni da copiare
In Italia sono tante le sperimentazioni e best practice sul tema dell’intervento precoce in caso di arresto cardiaco. Sul fronte dei condomìni, ad esempio, il progetto più noto è quello della città di Piacenza, dove l’associazione ‘Progetto Vita’, fondata dalla cardiologa Daniela Aschieri, ha creato un intero “quartiere cardioprotetto”, con defibrillatori installati presso i condomìni privati. L’obiettivo finale è quello di installare un defibrillatore ogni 150 metri, per aumentare di quattro volte la sopravvivenza di chi viene colpito da arresto cardiaco improvviso.
Sul fronte dell’intervento in strada, invece, in Emilia Romagna è stata sperimentata con successo una app, integrata col sistema 118 regionale, che si chiama DAE RespondER (scaricabile su Playstore o Itunes). Come funziona? L’app allerta le persone registrate nel caso la centrale operativa 118 identifichi un sospetto arresto cardiaco nell’area per cui l’utente ha dato la disponibilità a intervenire e consente inoltre di localizzare il defibrillatore più vicino, per poterlo recuperare e portarlo dove si trova la persona colpita. Per cambiare le cose, però, ci vorrebbe anche altro.
“Senza dubbio una modifica della legge 120/2001”, continua il presidente della Onlus ‘60 mila vite da salvare’, “che liberalizzi l’utilizzo del Dae, slegandolo da assurdi obblighi formativi, sostituendoli con una massiccia campagna informativa che crei cultura e faccia superare paure e superstizioni e che parli dell’incidenza della patologia e dei metodi, disponibili da 20 anni, per contrastarla. Le campagne sul tema dell’arresto cardiaco e della defibrillazione sono troppo poche, a confronto di quelle sul tabagismo o sull’Aids. Indispensabile anche un provvedimento di natura economica per abbattere, o eliminare, l’Iva al 22% che grava sull’acquisto dei defibrillatori”.
“Insomma, le mani invece che nei capelli si possono mettere sul petto di un altro e su un apparecchio che ci prende il 99,99% delle volte”, puntualizza Bronzetti. “Il defibrillatore ha un margine d’errore bassissimo, inferiore allo 0,1 percento, se il ritmo cardiaco è valido e non è da ‘scaricare’ non fa scaricare”.
Prevenzione cardiologica, come farla
In questo quadro critico, adulti e genitori di bambini che praticano sport possono comunque mettere in atto una prevenzione cardiovascolare che può essere salvavita. Cosa fare esattamente ce lo spiega sempre il cardiologo Bronzetti: “La prevenzione inizia con l’anamnesi (l’accertamento minuzioso della storia familiare) e l’investigazione di sintomi, come svenimenti da sforzo. Poi ci vuole la visita, scrupolosissima e l’ECG, l’elettrocardiogramma, obbligatorio in Italia anche nei piccolissimi che fanno sport, almeno dai sei anni in su. Ma dopo i 12 anni tutti gli sportivi dovrebbero fare un ecocardiogramma, per escludere coronarie anomale e cardiomiopatie, che rappresentano il 15-20% delle morti cardiache improvvise durante sport. Lo stato non lo passa, ma credo che una famiglia che spende mille euro nei trasporti e nelle spese di un piccolo calciatore possa investire cento euro in un ecocardiogramma, solo il doppio del prezzo dei parastinchi firmati. Poi c’è il test da sforzo a cura della medicina sportiva. In casi molto selezionati, per fugare sospetti di cardiopatia, occorrono esami più approfonditi come risonanza magnetica o Tac”. Anche lo screening cardiologico dei giovani maggiori di 12 anni che fanno sport a livello agonistico – ECG basale e da sforzo durante step test ed eventuale ecocardiogramma – è costoso ma molto efficace. “In Veneto”, ricorda Bronzetti, “dal 1980 ad oggi lo screening degli atleti tra i 12 e i 35 anni ha ridotto la MI (morte improvvisa) in modo incontrovertibile e anzi, nonostante lo sport sia per tutti un trigger di eventi potenzialmente letali (a parità di geni e di cuore il rischio relativo di MI durante sport è 2,8), proprio in virtù dello screening la mortalità per MI degli atleti è scesa sotto quella dei non atleti. In ogni caso fermare dei bambini che fanno sport per eccesso di zelo e timore può esporli all’eccesso di obesità, ipertensione, diabete e altre cattive abitudini. Con rischi ben più elevati per la loro salute”.
(Pubblicato su Business Insider, 24 marzo 218)