300 milioni di yen destinati dal Ministero del Benessere agli hikikomori, grazie a una legge sulla povertà che li ha considerati i “nuovi poveri”, visto che spesso non hanno un lavoro e rischiano di non trovarlo più.
Il Giappone si sta muovendo da tempo per cercare di arginare un fenomeno allarmante e in continua crescita, quello dei giovani, ormai coi capelli bianchi, che non escono più di casa, da qualche anno presente anche in Italia.
Come racconta la giornalista Anna Maria Caresta, che è andata in Giappone proprio a conoscere gli specialisti e i luoghi di cura dei reclusi sociali (viaggio da cui è nato il libro Generazione Hikikomori. Isolarsi dal mondo fra web e manga, appena uscito per Castelvecchi), “dal 2010 è stata attivata una rete di centri di snodo comunali”, dedicati proprio ai ritirati sociali, chiamati anche autoreclusi.
“In questi centri, in cui nel 2015 sono arrivate 18.000 richieste d’aiuto in continuo aumento”, racconta l’autrice, “gli hikikomori trovano vari tipi di sportelli: per risolvere i problemi abitativi, se hanno perso la casa; per la ricerca del lavoro; per le cure mediche, per le specializzazioni lavorative”.
Spiega a sua volta Hino Toru, vicedirettore del dipartimento del Benessere di Tokyo:
“I ritirati sociali vannocurati, sostenuti, ascoltati e aiutati a capire quali sono i loro diritti. Per questoi corsi spaziano dai computer alle regole della buona educazione: spesso bisogna tornare a insegnare loro anche come ci si veste e si parla davanti alle persone”.
Quando invece ci sono casi di hikikomori che non si muovono da casa, subentrano le figure dei supporter che vanno nelle loro abitazioni per cercare di convincerli a frequentare i centri. “Se l’hikikomori è giovane, viene inviato un giovane, se è più grande, un operatore di media età. Molti hikikomoriguariti diventano a loro volta supporter”, precisa Caresta.
Un’email per chiedere aiuto
Un’altra rete fondamentale per la cura degli hikikomori è l’organizzazione KHJ, 57 centri in tutto il Giappone, che ha come obiettivo quello di aiutare i genitori, che si incontrano una volta al mese, a superare molte delle loro difficoltà e a fare gruppo tra loro. Sono gli stessi genitori a pubblicare un giornale trimestrale dove si discute del tema hikikomori e si invitano alle persone ad unirsi. E poi, segnala sempre Caresta, ci sono strutture come quella della dottoressa Kayo Ikeda, consulente del Governo che ha creato uno dei centri per i ritirati sociali dove, grazie ai contributi statali, si organizzano corsi dedicati agli hikikomori, agli ex hikikomori e ai genitori.
L’edificio si trova a Sugamo, uno dei 23 grandi distretti di Tokyo, ed è all’interno di un appartamento al piano terra che gli autoreclusi si incontrano, cucinano e mangiano tutti assieme cercando di parlare, aprirsi e condividere i problemi. Kayo Ikeda ha una squadra di assistenti che si reca direttamente nelle case dei ritirati sociali che non riescono a uscire da soli. Con lei lavora il giornalista Masaki Ikegami, uno dei maggiori esperti giapponesi di hikikomori, i quali gli scrivono via mail – un mezzo che riescono ad usare perché indiretto – per chiedere aiuto. “Sono persone offese e ferite”, spiega Caresta, “che provano vergogna, anche perché quando vanno a un colloquio il loro curriculum ha una parte bianca, e questo è un problema enorme, specie qui in Giappone”.
Altre terapie: dal bel canto al sonno
Lontana dai grattacieli di Tokio, vicina all’aeroporto di Narita, si trova invece la clinica psichiatrica Ashita no Kaze, diretta dal professor Sasaki e dove lavora il primo psichiatra che ha lanciato l’allarme sulla sindrome da ritiro sociale, Tamaki Saito.
“È incredibile, eppure qui questi ragazzi”, spiega Caresta, che ha assistito direttamente alle lezioni, “vengono guariti anche attraverso lezioni di bel canto italiano, utilizzato come terapia di gruppo. Il principio base è che venire fuori da soli da questa patologia, senza un aiuto multispecialistico, è impossibile”. Qui, nella clinica di Saito, gli hikikomorifrequentano il day hospital, dove ricevono cure, ma dove dividono anche spazi ricreativi, anche in questo caso preparando il cibo tutti insieme, suonando vari strumenti musicali e trascorrendo del tempo con giochi da tavola”.
Ma in Giappone esistono anche altre strutture specifiche,come l’ospedale pubblico di Kanagawa, che si occupa della dipendenza dal web e dei relativi problemi del sonno, visto che molti giovani hikikomori finiscono per scambiare la notte per il giorno.
“Mentre un tempo questi medici curavano chi era afflitto da problemi di alcol e di droga, ora i problemi sono molto più indefiniti. Spesso però i nuovi disagi riguardano l’uso eccessivo e distorto delle tecnologie”, spiega Caresta. Al day hospital di Kanagawa c’è una lista d’attesa infinita, i posti sono dieci a settimana. In Giappone sono sorte però anche una serie di strutture, sia pubbliche che private, dove si pratica la cura del sonno, che dura due mesi e si effettua generalmente durante l’estate, per evitare di interferire con l’andamento scolastico, a meno che il ragazzo non abbia già lasciato la scuola.
Le free school: scuole senza obbligo di frequenza
Un elemento molto importante nelle guarigione e nella riabilitazione sociale di un hikikomori è certamente la scuola, spesso abbandonata, magari dopo – in Giappone è molto frequente – una bocciatura o episodi di bullismo. La soluzione qui sono delle “free school”, dove la frequenza è libera e non incide sul voto. “In pratica questi istituti, che possono essere privati e costosi, oppure gestiti da organizzazioni non profit, tengono presente la velocità di apprendimento di ogni studente e la volontà di fare di ciascuno. Ecco perché la frequenza può variare, anche se non essendo riconosciuti bisogna fare un esame a fine anno”, spiega ancora l’autrice.
E in Italia?
Venendo invece al nostro Paese: una struttura scolastica riconosciuta, e pensata specificamente per chi soffre di sindrome da ritiro sociale, è quella del Regina Margherita di Torino, unico caso in Italia in cui esiste una collaborazione stretta tra istituti scolastici e un reparto di neuropsichiatria infantile. Qui, dove negli ultimi anni sono arrivati 110 teenager con la sindrome da ritiro sociale, le assenze non vengono contate. A questi giovani pazienti viene offerta anche la possibilità di frequentare corsi e seminari alla Casa di Oz, adiacente all’ospedale, gestita da una ong, dove si tengono lavoratori di cinema, teatro, musica, fumetto e fotografia.
Roma a Milano: poche strutture per gli hikikomori
Al di là del Regina Margherita di Torino, strutture specifiche per la cura dell’esercito crescente degli hikikomoriitaliani da noi si contano sulle dita di una mano. A Roma esiste il noto “Centro Pediatrico Interdipartimentale per la Psicopatologia da Web”, diretto dal prof. Federico Tonioni,che spiega:
“Quello su cui focalizziamo l’attenzione non è la dipendenza tecnologica, ma il ritiro sociale, che può contenere sia molta aggressività repressa, come negli hikikomori, sia essere più passivo (e più difficile da guarire). In entrambi i casisi tratta di problema emotivo, che noi cerchiamo di curare con il contatto dal vivo. Da quando abbiamo aperto l’ambulatorio nel 2009, ci siamo occupati di1.500 nuclei familiari,attualmente seguiamo circa 80 persone, tra gruppi e colloqui individuali”.
L’altra struttura italiana che si occupa di reclusi sociali è il Minotauro di Milano, una fondazione e una cooperativa dotata di una task force di psicologi specializzati.
“Qui”, spiega Caresta, “si fa come in Giappone. Gli psicologi vanno nelle abitazioni dei ragazzi reclusi e cercano di entrare in contatto con loro. Ma in questo caso lo fanno attraverso i videogames, facendo scegliere agli autoreclusi un avatarper poi comunicare con loro attraverso il gioco. E spesso questa si rivela l’unica forma possibile per stabilire un dialogo con questi giovani”.
Una volta usciti di casa, potranno seguire la psicoterapia, così come corsi di fotografia, cinema, scrittura creativa. “Certo, il percorso non è facile”, conclude. “Può accadere ad esempio che i reclusi decidano di uscire ma si blocchino in macchina e i medici debbano scendere nel parcheggio per andare ad accoglierli, o che gli hikikomori arrivino sporchi perché non si lavano. Ma se in Giappone stanno riuscendo a recuperarli, dobbiamo cominciare a farlo anche noi. Purtroppo, non c’è più tempo da perdere”.
Pubblicato il 5 marzo 2018 su Business Insider
Foto di Cátia Matos