Se non riuscite a trovare una parola che rappresenti insieme un paio di piedi infilati in calzettoni di lana, due mani che tengono una tazza di vin brulé bollente, un caminetto acceso attorno al quale un gruppo di intimi amici è intento a una conversazione allegra ma soprattutto poco impegnativa, provate a pronunciare il suono “hoo-guh”, corrispondente alla parola danese “hygge”: e voilà, avrete proferito uno dei vocaboli dell’anno, secondo l’Oxford Dictionary, accanto a “post truth” e “brexiteer”. Sul concetto di “hygge” sono infatti state scritte dozzine di articoli dai titoli più bizzarri – “Hungry For Hygge!”, “Get Hygge With It!”, “Give Your Home a Hygge!” – mentre gli editori, fiutando la possibilità di un nuovo filone editoriale adatto ai lettori deboli, hanno pubblicato talmente tanti titoli sul tema che è impossibile citarli tutti (Hygge: The Danish Art of Happiness; The Little Book of Hygge; How to Hygge: the Secrets of Nordic Living; Keep Calm and Hygge: A Guide to the Danish Art of Simple and Cosy Living; Say Ja to Hygge: How to Find Your Special Cosy Place).Ma esattamente cosa significa questo termine danese, che gli Stati Uniti e la Gran Bretagna stanno rapidamente importando? Anche se c’è chi sostiene che non esistano parole per descriverlo, – perché l’hygge “si sente”, non si spiega – secondo il “New Yorker” si tratta di un “tipo di intimità e convivialità rassicurante che genera contentezza e benessere”, anche grazie ad un’atmosfera speciale, fatta di caffè appena fatto, panini al cardamomo, candele, coperte o maglioni di cashmere e, magari, una tempesta di neve fuori. Ma l’hygge – il cui hashtag su Instagram (1 milione e mezzo di post), viene associato a zuppe di zucca, foglie che cadono e neonati imbacuccati – lo si può trovare anche entrando in una pasticceria, oppure nel caldo di una sauna insieme ad amici nudi. Ed è così “salutare e nutriente” che i medici lo raccomandano insieme al thé per guarire dai malanni di stagione, o come forma di “digital detox” (no, il vostro telefonino non è hygge!). Forse è proprio l’hygge il fattore determinante che fa finire i danesi in cima alle classifiche dei più felici al mondo: almeno loro la pensano così, e se gli ricordi che hanno il sistema di tutele e welfare migliore del pianeta rispondono che comunque la soddisfazione dei bisogni materiali non porta automaticamente la felicità. Ma cos’è esattamente l’higgy? Una forma estetica di “salutare edonismo”, da praticare anche soli, quell’amore verso se stessi esaltato dalle pubblicità per vendere di tutto, “dalle torte vegane alle creme per la pelle, dai ritiri yoga alle vacanze in capanna”, come scrive in un lungo reportage sul “The Guardian” Charlotte Higgins (curiosa coincidenza di tema e cognome)? Oppure è una forma etica di altruismo e di accoglienza dell’altro, che include pazienza, moderazione, correttezza, gratitudine, una sorta di virtù tutta scandinava (ma allora a che servono candele e torte)? Alcuni accusano l’hygge di promuovere un certo conformismo che esclude le stravaganze che minacciano il gruppo, così come argomenti conflittuali o complessi. Altri puntano il dito contro il fatto che sia un concetto ormai impugnato anche dalla destra – gli immigrati distruggerebbero l’atmosfera “hyggelig” del paese – mentre altri ancora sostengono che l’hygge altro non sia che la via danese alla vita borghese (pare che un rifugiato siriano non sia riuscito a trovare in tutta Copenaghen tubi al neon fluorescenti per la casa: “carenti in hygge”). Ad ogni modo, non c’è scampo. Dimenticate le atmosfere di un Mankell o di un Jo Nesbø, o di fiction come “The Bridge” o “The Killing”. Contro il terrore oggi si usa il calore. Contro il “trumpism”, panini al cardamomo, contro la Brexit calzini di lana. E pazienza se là fuori succede di tutto. Stretti intorno al fuoco, ci si sente immuni da ogni pericolo. Forse è un abbaglio, loro la chiamano felicità. Il fatto quotidiano.
Fatto Quotidiano 2016 dicembre
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