Fosse la retta, 600 euro all’anno, sarebbe uno scherzo. Ma poi, scarpini a parte, c’è l’acquisto del kit, tute e completini e pure il giaccone, con un costo che può arrivare fino a 200 euro. Ma il peggio, economicamente parlando, sono i tornei. “Si paga per vederli giocare fuori casa, poi quando si va fuori regione ci sono i pranzi, le cene, la benzina. Un salasso”, dice Francesca, mamma di un teenager. “Pensi che noi genitori ormai compriamo tute di almeno una misura più grande per farle durare due anni”. Insomma, altro che due tiri a un pallone, oggi avere un figlio che gioca a calcio, sport nazionale, significa spendere anche uno stipendio all’anno. Non cambia molto, però, per gli altri sport, come il nuoto: 750 euro per un corso classico in una polisportiva federale (dove magari si paga anche il gettone del phon). Un anno di scherma, invece, costa “solo” 600 euro, ma poi “per l’attrezzatura – maschera, spada, divisa e guanto – si parte dai 300 euro”, dice Veronica, una mamma di Milano. Ma la palma degli sport più esosi va senz’altro all’equitazione, “100 euro al mese per una volta a settimana, più 150 di iscrizione più 17 di patentino, più 80 di kit ma senza stivali, quelli però li abbiamo presi da Decathlon”, dice un papà. Anche il tennis non scherza, specie se diventa preagonistico: “2.200 euro all’anno per tre volte al giorno”, spiega una mamma di Roma. E poi c’è la “mazzata” dei saggi, per i quali si può arrivare persino a 400 euro. Di tutte queste spese – a cui vanno aggiunte l’iscrizione, il certificato medico che il medico di base si fa pagare, la visita per l’elettrocardiogramma – lo Stato ti consente di scaricare il 19% di 210 euro, in pratica 40 euro e solo a partire dai 5 anni. Una goccia nel mare.
Eppure i genitori di oggi, ma anche chi ha qualche anno in più, non ricordano che lo sport fosse né così costoso – specie l’agonismo – né così faticoso per i genitori, che impazziscono per accompagnare i figli ad allenamenti e gare. “Da piccolo”, dice Francesco, di Modena, “giocavo a pallone nella stradina dietro casa, alle medie andavo da solo in bicicletta allo stadio, mai che i miei mi abbiano accompagnato”. “Dalla quinta elementare alla terza ho fatto scuola tennis, ma non esistevano né kit da comprare né tornei da disputare”, racconta invece Claudio. “Negli anni ’80 per giocare a pallavolo agonistica pagavo 10.000 alla squadra, non molto”, dice Francesco, di Roma.
Ma allora cos’è cambiato? Ci dà una mano a capire Paolo, giovane allenatore di una grossa società calcistica romana. “Venti anni fa nel settore agonistico non si pagava, le Federazioni davano più fondi. Oggi invece non solo questi fondi non ci sono, ma aumentano i costi di iscrizione ai campionati e quelli di gestione delle strutture, basti pensare che un campo di calciotto costa 130.000 euro. E nessuno aiuto viene dalla politica, né tantomeno dai Comuni, tranne rari casi e in genere sempre per l’organizzazione di manifestazioni. Così i costi si riversano sulle famiglie”. Nonostante le agevolazioni a livello fiscale, le ASD, Associazioni Sportive Dilettantistiche vivono in una situazione di grande sofferenza, specie nel garantire il settore agonistico, il più costoso. Più volte hanno chiesto l’intervento del governo, anche, tra l’altro, per sollecitare un’uniformità normativa per il tema dello sport nel terzo settore, che non gode degli stessi benefici dello sport federato. “Invece cosa ha fatto il Ministro dello sport Lotti del penultimo governo?”, spiega Livio Mastrostefano, presidente del Comitato “Salviamo lo sport dilettantistico”. “Oltre a intervenire sui diritti televisivi – la cosa che gli interessava maggiormente – ha inventato, non certo a favore delle associazioni sportive normali, da sempre povere, la mostruosità giuridica della ‘società sportiva dilettantistica a scopo di lucro’, un’assurdità che per fortuna è stata subito abolita dall’attuale sottosegretario con delega allo sport, Giancarlo Giorgetti”. L’altro problema è il ruolo del Coni, sorvegliato speciale del governo Di Maio-Salvini, che ha annunciato fin da subito un controllo sui costi e sugli sprechi. I fondi dello Stato – 440 milioni – finiscono quasi tutti negli stipendi e poi alle 42 Federazioni. Ma alle singole società ovviamente arrivano briciole.
Così oggi, dallo sport, divenuto un’opzione per soli ricchi, restano fuori i bambini poveri o a rischio povertà (1 su 3 secondo l’ultimo Rapporto Save The Children). “Noi abbiamo provato per due anni ad allenare gratis bambini con disagi familiari o senza soldi”, continua sempre Paolo, “ma alla fine, senza aiuti, ci siamo arresi. La Federazione è presente solo quando esige il pagamento del cartellino, una follia di 23 euro a bambino: consideri che solo a Roma ci sono tra i 50.000 e i 60.000 bambini iscritti, si tratta di oltre un milione di euro”. Emblematica delle difficoltà di quelle associazioni sportive che cercano di togliere i ragazzi dalla strada è la vicenda del judoku Pino Maddaloni, padre del campione olimpico Pino, che da aprile sta chiedendo aiuto al Comune di Napoli perché la sua palestra rischia di chiudere. Riesce invece ancora a lavorare la nota associazione sportiva romana Mezzaroma. “Valutiamo le singole situazioni economiche, i nostri abbonamenti hanno prezzi sociali”, dice la dirigente Loredana Margheriti. “Come riusciamo? Primo, perché i dirigenti non incassano nulla, è puro volontariato, secondo perché siamo riusciti a vincere bandi provinciali per l’uso di strutture pubbliche”. Casi rari a parte, però, lo sport infantile ha preso ormai chiaramente la strada del business. E solo i figli di famiglie agiate riescono ad accedervi. Le conseguenze, però, non sono solo in termini di (in)giustizia sociale, ma anche di perdita di possibili talenti e fuoriclasse. “Se solo i ricchi fanno sport, poi chi ci mandiamo alle Olimpiadi?”, spiega sempre Mastrostefano. “Sono appena finiti Mondiali di calcio senza l’Italia. Abituiamoci, perché in futuro questa potrebbe diventare la normalità”.
(Pubblicato sl Fatto Quotidiano di lunedì 30 luglio 2018)
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