Dimenticate la psicoanalista francese Corinne Maier, che nell’ormai lontanissimo 2007 scriveva il discusso pamphlet No kid. Quaranta ragioni per non avere figli, dove la scelta di non procreare era legata al desiderio di non soffrire i dolori del parto e continuare a uscire con gli amici. Sembrano argomentazioni del Pleistocene, visto che l’ultima tendenza in fatto di rifiuto di mettere al mondo figli nulla c’entra col privato: al contrario, ci si astiene per eco-altruismo, e cioè non solo per evitare di sovrappopolare un pianeta già in manifesto overbooking, ma soprattutto per non costringere i propri figli a fronteggiare l’ “armageddon ecologico” ormai all’orizzonte. A portare avanti questa causa – abbastanza popolare tra i nuovi Millenial, visto che il 38% di loro, secondo una ricerca, sono convinti che una coppia debba considerare i rischi del clima prima di riprodursi – è un gruppo di giovani donne inglesi, quasi tutte attiviste per l’ambiente, che hanno fondato il movimento #Birthstrike, i cui aderenti devono mettere nero su bianco la propria decisione di non avere figli a causa “della severità della crisi ecologica”. Lungi dal giudicare chi è già genitore, il movimento non sposa un’ideologia anti-natalista, né auspica un violento controllo della popolazione dall’alto. “Con lo sciopero delle nascite, non vogliamo certo risolvere la crisi, ma cercare di portare brutalmente l’attenzione su di essa”, spiega Blythe Pepino, fondatrice del gruppo. Per la verità ragioni da vendere queste attiviste ne hanno: c’è chi, come Alice Brown, 25 anni, si chiede come potrebbero venir trattati i suoi figli, magari un giorno profughi, visto come sono trattati oggi coloro che fuggono. E c’è chi, come Hannah Scott, 23, immagina il loro futuro terrore, “se io sono già terrorizzata oggi”. Queste nuove birth striker per l’ambiente, niente affatto naif, sanno che nessuna riduzione drastica della popolazione basterà a scongiurare la rovina. Il loro rifiuto vuole provocare un urto simbolico, specie in società in cui i politici fanno pressioni perché si mettano al mondo figli, per evitare choc demografici e tracolli economici (anche se c’è chi, come la ventinovenne democratica statunitense Alexandria Ocasio-Cortez, ha difeso su Istagram la loro scelta).
Come tutte le donne che hanno usato e usano il corpo come forma di protesta – siano Femen o fautrici dell’utero in affitto – le birth striker stanno cominciando a subire i primi attacchi dei pro-life, alcuni dei quali le hanno definite “femministe in salsa green, che dopo l’odio indiscriminato verso il maschio bianco ora odiano anche i figli”. Ma le ragioni per cui lo sciopero delle nascite potrebbe non essere una buona idea sono altrove. E non si tratta neanche del rischio di sottrarre ragioni alle lotte per un welfare più umano per le famiglie, quanto del fatto che l’angoscia apocalittica porta sempre con sé più depressione che azione, visto che la psiche umana può agire solo se mossa dalla speranza (e non è un caso che i bambini sono sempre nati anche durante le guerre più atroci). Come ha detto poi lucidamente David Wallace-Wells, lo scrittore e padre che pure ha pubblicato l’ansiogeno libro The Uninhabitable Earth, “fare figli è una ragione per combattere”. Perché in effetti, senza bambini, e con un orizzonte limitato davanti, la tentazione diventa un’altra. Quella di acquistare con i propri risparmi una casa sui mari del nord, e godersi meravigliosi miti autunni e calde primavere. Tanto l’apocalisse arriverà subito dopo la nostra morte. E allora, in fondo, perché scaldarsi tanto?
21 marzo 2019, Il Fatto Quotidiano
Foto di Daniel Nebreda